Siamo tutti impiccioni. Ma gli altri lo sono sempre più di noi.
In queste ore si sono intrecciate due storie, in cui – è evidente – non brilliamo per intuizione o capacità di riconoscere prevedibili rischi del mestiere.
Da una parte lo scandalo delle favolose apparecchiature di cifratura delle comunicazioni, che una società svizzera per sessant’anni ha venduto a tutto il mondo senza che nessuno immaginasse (guarda un po’…) che dietro quella piccola azienda si nascondessero la CIA e i Servizi segreti tedeschi.
Dall’altra la notizia che l’intelligenze americana che ha messo nero su bianco (e il Wall Street Journal ha scoperchiato la pentola) che per almeno un decennio ha avuto libero accesso alle viscere delle reti TLC occidentali e non solo statunitensi.
Mentre non resta che complimentarsi con chi era pagato per scongiurare fregature del calibro di quelle su cui si incardinano le due vicende, interrotta la doverosa standing ovation viene istintivo domandarsi adesso cosa succede.
In realtà sarebbe opportuno guardare indietro e rivisitare gli eventi che hanno segnato la nostra involuzione, alla luce della rivelata trasparenza degli ambiti più riservati.
La storia di Crypto AG, nelle mani delle spie già dagli anni Settanta e non da ieri (come direbbe Cetto Laqualunque: “applauso!”), non è il racconto di un occasionale fuga di notizie.
Le articolazioni più delicate del nostro Paese (e non facciamo certo riferimento a ginocchia e gomiti doloranti per qualche acciacco reumatico o per postumi di eventi traumatici) hanno veicolato la rispettiva corrispondenza segreta utilizzando apparecchiature la cui blindatura non è risultata di inutile ma opaco cartone, ma di vetro cristallino. Messaggi top secret erano osservati, quasi 007 e ambasciatori fossero i protagonisti di un terrificante Truman Show. Decisioni e scelte strategiche, accordi e protocolli di intesa, iniziative delicatissime e quanto altro è possibile immaginare, sono stati scolpiti indelebilmente negli archivi di chi diligentemente non si è perso nemmeno una virgola di quanto veniva detto e scritto dai personaggi di maggior rilievo e nelle situazioni più fragili.
Lo scoop del WSJ non consente di piangere sul latte versato, ma offre l’opportunità di evitare problemi futuri.
Sappiamo bene che i produttori di apparecchiature per le telecomunicazioni costruiscono e vendono hardware come dispositivi di commutazione (i cosiddetti “switch”), stazioni base (ossia i “ponti radio”) e antenne ai vettori (cioè gli operatori telefonici che assemblano le reti che consentono la comunicazione mobile di voci, dati e immagini) e sono obbligati a costruire nei loro modi hardware per consentire alle autorità di accedere alle reti per scopi previsti dalla legge. Specularmente le aziende produttrici sono inoltre tenute a realizzare apparecchiature escludendo la possibilità di un successivo accesso dei propri tecnici senza il consenso della società telefonica che ha installato le macchine e gestisce il network.
All’utilizzo delle cosiddette “interfacce di intercettazione” sono abilitati soltanto i soggetti rigidamente stabiliti dal codice di procedura penale in particolari fattispecie rigorosamente prefissate, con modalità autorizzative e procedure tecniche ben definite. In termini pratici, però, secondo gli agenti segreti americani, Huawei avrebbe costruito apparecchiature in grado di eseguire – all’insaputa anche degli stessi operatori telefonici che se ne avvalgono – una serie di operazioni in violazione della privacy, di qualunque altro diritto costituzionalmente garantito, dei segreti di Stato e – ad esempio – di quelli istruttori, industriali e commerciali, della libera concorrenza e così a seguire.
Chiacchiere? Non proprio, visto che a parlare è Robert Charles O’Brien ovvero il Consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense.
Da quanto dura la scorribanda telematica cinese? Solo dal 2009….
Qualcuno pensa di applicarsi sulla questione o, in attesa delle future nomine governative, si spera di passare il cerino nelle mani di qualcun altro?