Voluto da Trump, sognato dagli americani e non solo, realizzato dalla consociata di Google “Verily”: queste le premesse di un volo che ricorda la sfortunata performance di Icaro nel tentativo di fuggire dal labirinto in cui, a Creta, Minosse intendeva rinchiudere il Minotauro.
Come il figlio di Dedalo salì troppo in alto incurante del calore che avrebbe scollato le piume fissate con la cera sulle grossolane ali, qualcuno ha voluto sfidare i picchi di visitatori non immaginando che un sovraccarico avrebbe fatto precipitare il sogno.
Doveva essere un sito in grado di facilitare i test per il coronavirus e, dopo che il Presidente degli Stati Uniti ne aveva annunciato le strabilianti potenzialità, è andato online con un minuscolo progetto pilota che limitava l’accesso a due contee della California settentrionale e più precisamente nella Bay Area di San Francisco.
La predisposizione di questo web, opera di una unità del gruppo Alphabet ovvero la casa madre di Google, è inciampata in qualcosa che è andato storto.
Il primo intoppo è saltato fuori quando la piattaforma su Internet ha cominciato a rispondere alle persone che dichiaravano di avere sintomi del virus che non era possibile la loro ammissione al programma di screening.
In secondo luogo chiunque si sia “accostato” al sito ha dovuto fare i conti con una serie di obblighi di registrazione: il cittadino o accedeva tramite un account Google oppure ne doveva creare appositamente uno, provvedendo in ogni caso a sottoscrivere poi una dichiarazione di autorizzazione al trattamento dei propri dati (che nella fattispecie non erano proprio informazioni da lasciare in pasto a chi ne avrebbe potuto fare qualsiasi uso…).
Fortunatamente, si fa per dire, poche ore dopo l’inaugurazione del servizio telematico, Verily ha dovuto alzare le braccia e ammettere di non essere più in grado di programmare altri appuntamenti perché era stata superata la capacità operativa del sistema.
La dinamica di funzionamento della piattaforma era basata sulla somministrazione iniziale di un questionario, con cui veniva domandato all’interessato se avesse tosse grave, respiro affannato, febbre o altri sintomi ritenuti correlabili alla patologia pandemica. Se l’utente rispondeva “sì”, il sistema (forse per timore di essere infettato a distanza da un possibile starnuto in arrivo) interrompeva il dialogo con la tanto bizzarra quanto incredibile comunicazione che i test da eseguirsi personalmente attraverso il programma di assistenza “non rappresentano la soluzione giusta”.
I meno “ciecati” (come avrebbe detto l’indimenticabile Anna Marchesini attraverso la “signorina Carlo”) avrebbero però avuto modo di notare che in caratteri più piccini (quasi fossero le clausole capestro di certi contratti bancari e non) il sito di Verily suggeriva di fare ricorso ad un aiuto medico.
Chi invece ha risposto con qualche “no” è riuscito a prolungare la “conversazione” con il sistema fino a farsi chiedere età, dislocazione geografica e altri fattori addizionali di rischio.
E’ abbastanza ovvio che simili situazioni hanno determinato una comprensibile confusione tra i soggetti che malauguratamente sono approdati al sito in questione.
Qualche giornalista impertinente avrebbe chiesto se l’esclusione dal servizio delle persone con sintomi fosse stata determinata da un errore di progettazione del sito. La società Verily ha escluso in maniera categorica una simile eventualità e detto che non c’era assolutamente alcuno sbaglio.
Una dichiarazione scritta di Carolyn Wang, portavoce della consociata di Google, ha rimosso ogni dubbio: “La domanda iniziale ha lo scopo di garantire che chiunque sia gravemente malato non venga nelle nostre strutture perché non sono pronte a fornire assistenza medica”.
L’obiettivo dichiarato di Google & C. è quello di acquisire informazioni per “perfezionare lo screening e i test sui rischi COVID-19”, nel quadro di una raccolta di dati sanitari per mappare la salute umana e sfruttare le potenzialità del cosiddetto Project Baseline e dell’accordo fatto con Ascension (il secondo sistema ospedaliero più grande degli USA) che ha dato al colosso hi-tech libero accesso a milioni di cartelle cliniche senza che i pazienti ne fossero a conoscenza o, manco a dirlo, avessero fornito il consenso esplicito al trattamento dei dati.
A questo punto una domanda è d’obbligo.
Ci dobbiamo preoccupare perché la piattaforma non funziona oppure se questa comincia a fare il suo mestiere senza blocchi o impedimenti di sorta?