Si parla e si sparla di una nebulosa “fase 2” con un allentamento delle restrizioni che hanno condizionato la nostra vita allo scattare dell’allarme per la pandemia.
Mentre il Paese sta morendo soffocato per ragioni economiche e non polmonari, ogni giorno una delle task force sforna una ricetta più o meno bizzarra per rilanciare l’Italia.
Le iniziative adottate nella fase 1 sono state caratterizzate da operazioni maldestre che nemmeno Wilcoyote avrebbe mai potuto escogitare, come – ad esempio – il recapito degli affetti da COVID-19 alle Residenze Sanitarie Assistite (o RSA come sentiamo dire in questi giorni) per dar luogo all’inevitabile strage dei precedenti ospiti dal già traballante quadro clinico.
Dopo le epurazioni in virtù della auspicata supremazia assoluta della razza ariana di ispirazione hitleriana, con cui gli emuli dei “nazisti dell’Illinois” (mitici personaggi del film “The Blues Brothers”) hanno deciso di sterminare la popolazione anziana così da sollevare la società da un peso probabilmente insostenibile, arriva un’altra manifestazione di palese incompatibilità dei “diversamente giovani” con il futuro che ci attende.
Gli ultrasessantenni – stando a quel che si dice – non riprenderanno a lavorare. Poco importa se in perfetta forma, capaci di performance circensi e in grado di sopravvivere ad esperienze estreme: quelli nati prima del maggio 1960 probabilmente dovranno restare a casa.
Un taglio su base aritmetica è senza dubbio il più rapido a potersi eseguire. Il passo successivo è forse quello di indurre le persone anziane ad incamminarsi spontaneamente verso il luogo in cui lasciare la vita terrena.
Vengono in mente le parole dello scrittore Antonio Tabucchi, scomparso a Lisbona nella primavera di otto anni fa.
“Fra tutti i riti funebri che le creature di questo mondo hanno escogitato, ho sempre ammirato quella degli elefanti. Hanno una strana maniera di morire. Quando un elefante sente che è arrivata la sua ora, si allontana dal branco. Ma non va da solo. Sceglie un compagno che vada con lui. E partono”.
Sono tratte dal suo libro “Tristano muore” e, in attesa di trovarlo in libreria, ci si può accontentare di leggere il delicato ricordo di Tabucchi che aveva tracciato Silvia Truzzi nel suo blog sul Fatto Quotidiano.
Mio bisnonno Vittorio, tipografo, classe 1884, centenario a dispetto di esser nato il 2 novembre e di una salute dichiarata cagionevole in gioventù, mi ripeteva “tieniti stretto quel che sai, quel che hai imparato, quel che sai fare: sono le uniche cose che nessuno potrà mai portarti via”.
In questo momento in cui ci stanno strappando la libertà (e il “meglio” non lo abbiamo ancora visto), rivedo il suo volto e il suo sorriso e faccio tesoro di quella sua raccomandazione.
Quello che in famiglia consideravamo l’equivalente del “Numero Uno” del Gruppo TNT dei fumetti di Alan Ford, quando tornavo in licenza dall’Accademia giungendo dalla Capitale dove si compiva il destino nazionale, mi domandava “Cosa si dice a Roma?”. Se mai riecheggiasse il suo consueto quesito, per mera decenza mi avvarrei della facoltà di non rispondere.