Troppo facile scaricare su una piattaforma social l’insopportabile peso della morte di una bimba, uccisa dal desiderio di emulare folli performance e probabilmente dalla scarsa attenzione di chi gli stava vicino nel suo delicato processo di crescita.
Non ci troviamo a piangere la prima vittima degli sconvolgenti comportamenti innescati dall’uso di dispositivi elettronici e delle relative opportunità di svago che questi offrono attraverso servizi e piattaforme telematiche. Non è una novità, eppure ogni volta ci si sorprende, ogni volta si punta il dito contro questa o quella realtà di aggregazione virtuale, ogni volta si dà la colpa ai social senza fare il benché minimo esame di coscienza.
Se qualcuno uccide con un coltello da cucina, la responsabilità non è dell’utensile o di chi lo ha prodotto. Forse va cercata in chi non ha spiegato la pericolosità di un utilizzo “improprio” di un determinato strumento e ancor prima non ha educato alla mitezza della propria condotta e al controllo di pulsioni e reazioni.
Travolte dall’irruenza del progresso tecnologico, le generazioni “adulte” si sono comodamente rifugiate nel loro non essere “native digitali”.
Genitori, insegnanti, educatori di qualsivoglia sorta si chiedano cosa hanno fatto per affrontare il tanto inevitabile, quanto prevedibile cambiamento che lo tsunami hi-tech avrebbe determinato ad ogni latitudine. La risposta può variare dal “pochissimo” al “davvero nulla”.
Le istituzioni pubbliche e private provino a porsi il medesimo quesito. Lo facciano i dicasteri preposti all’istruzione, la radiotelevisione di Stato che per anni (ormai lontani) ha rispettato il proprio ruolo nell’evoluzione culturale del Paese, tutti i politici che hanno manifestato il loro interesse a tutelare i minori solo durante le campagne elettorali, le aziende di telecomunicazioni che traggono ciclopici profitti proprio sulla pelle degli “utenti” (anche quando questi sono minorenni) senza fornire reale supporto per la loro salvaguardia, i colossi di Internet che speculano su ogni clic e persino su ogni disgrazia capace comunque di generare traffico e introiti.
Il tragico gesto di Antonella ce l’abbiamo sulla coscienza anche noi, per la nostra indifferenza, per il nostro non aver fatto abbastanza, per il dimenticarci tutto dopo qualche giorno dalla solita ricorrente disgrazia.
Il provvedimento del Garante per la Protezione dei dati personali ha imposto alla società cinese che gestisce TikTok la misura della “limitazione provvisoria del trattamento”. In poche parole è stato vietato a TikTok “l’ulteriore trattamento dei dati degli utenti che si trovano sul territorio italiano per i quali non vi sia assoluta certezza dell’età e, conseguentemente, del rispetto delle disposizioni collegate al requisito anagrafico”.
La lettera a) del provvedimento n° 20 del 22 gennaio 2021 si traduce in realtà in uno sconfortante nulla di fatto.
Al roboante impatto mediatico del clamoroso annuncio alla stampa di una sorta di dichiarazione di guerra al ciclopico social network rischia di seguire ben poco e certo non è colpa dell’Autorità Garante che con grande solerzia ha cercato di dare un segnale forte.
Ci si trova dinanzi a due inconfutabili “impossibilità”.
La prima riguarda i fornitori di servizi online ed è quella della verifica del requisito anagrafico e quindi della “certezza dell’età” stabilita come obbligatoria per la partecipazione alla “vita” della piattaforma o del sito.
La seconda affligge gli uffici dei Garanti della Privacy la cui giurisdizione e competenza non arriva certo in Cina e il cui problema non è comunque quello di ordine giuridico. L’aspetto insormontabile risiede nelle attività di accertamento e verifica delle operazioni di trattamento dei dati eseguito fuori dai confini territoriali, ma soprattutto fuori dalla portata tecnica di chi dovrebbe intervenire ed effettuare controlli.
Chi riesce a metter mano sui sistemi di TikTok, analizzarne il funzionamento, comprendere le operazioni di trattamento dei dati effettivamente svolte, svelare eventuali trucchi, riconoscere attività indebite o illecite o eticamente reprensibili?
E se anche ci fosse qualcuno capace di metter mano dove andrebbe ad eseguire i suoi controlli visto e considerato che non si conosce la precisa dislocazione dei server e tantomeno l’architettura di un sistema incredibilmente complesso?
Si chiede al management di TikTok di incaricare i propri tecnici di guidare gli “ispettori” nel difficile compito e magari si pensa che vengano esibite le irregolarità? Dai, per favore, siamo seri…
Si può pure “chiudere” TikTok. Dopo qualche tempo salterà fuori un nuovo social o un’altra “app” di intrattenimento che veicolerà analoghe sfide e competizioni suicide e ci si ritroverà al punto di partenza.
E se si provasse, seriamente, ad intervenire sui giovanissimi dando loro qualche spunto per un’esistenza felice anche offline?