Speravo che lo sciopero dei dipendenti di Amazon risvegliasse le coscienze, certo non quelle di Jeff Bezos e dei suoi vassalli.
Mi auguravo che si destassero dal torpore dell’indifferenza i clienti del colosso del commercio elettronico. La protesta poteva essere l’occasione per scoprire il costo sociale del “trovare e ricevere tutto e subito”, per prendere coscienza che il piccolo risparmio del singolo acquirente contribuisce alla chiusura del negozio sotto casa, alla perdita di tanti posti di lavoro che certo non sono ammortizzati dalle assunzioni nei magazzini del gigante online, alla disumanizzazione dei turni di lavoro, alla demolizione della dignità di chi finisce in catene virtuali pur di portare un tozzo di pane a casa.
Sognavo l’intervento di qualche Istituzione o magari anche solo il “ghe pensi mi” di qualche politico a caccia di visibilità.
Non è successo nulla. Assolutamente nulla.
Chi ha coraggiosamente cercato di far sentire la propria voce ha visto il suo grido disperato precipitare nel vuoto.
I lavoratori hanno dato un importante segnale alla distratta e disinteressata collettività e anche una lezione di civiltà all’universo intero, ricordando che – a dispetto dell’indecoroso declino cui nessuno pare intenzionato a reagire – questo Paese è (o dovrebbe essere) la culla del diritto.
In questi giorni, nel tombale silenzio tricolore, ho trovato invece interessanti le parole della mia coetanea Frances O’Grady, madre single di due ragazzi, laurea in Scienze Politiche e Storia all’Università di Manchester e in Relazioni Industriali al Politecnico di Middlesex, undicesima donna più potente della Gran Bretagna, segretaria generale del Trades Union Congress (TUC) ovvero la confederazione che unisce 58 sindacati del Regno Unito e rappresenta oltre sei milioni e duecentomila iscritti.
E’ la prima voce autorevole che si scaglia contro un’applicazione indiscriminata dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, che utilizzata per migliorare la produttività, non sempre viene usata per riformare e arricchire la vita di chi presta la propria opera. La O’Grady guarda con comprensibile timore l’utilizzo di sistemi tecnologici evoluti per prendere decisioni che cambiano la vita ai lavoratori, stabilendone la sorte dal momento dell’assunzione fino al loro licenziamento.
“Senza regole eque, l’uso dell’intelligenza artificiale sul lavoro potrebbe portare a una discriminazione diffusa e a trattamenti ingiusti, specialmente per coloro che hanno un lavoro insicuro e per chi subisce la gig economy” tuona Frances O’ Grady.
“Gig economy”? Sì, parliamo proprio di quel modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative. Parliamo di un mostro famelico il cui appetito è soddisfatto dal disinteresse diffuso, da chi non si accorge – con il proprio comportamento – di essere complice degli sfruttatori: clienti e legislatori sono i “soci” tutt’altro che inconsapevoli di chi accumula ricchezze sulla pelle di disperati pronti ad accettare qualunque condizione pur di far sopravvivere la propria famiglia. I clienti che spendono qualche euro in meno, i legislatori che non prevedono e nemmeno rincorrono l’evolvere delle esigenze normative.
Il TUC chiede che i datori di lavoro siano obbligati a consultare i sindacati sull’uso dell’intelligenza artificiale che si profili “ad alto rischio” o risulti “invadente”. La confederazione britannica esige il diritto legale di avere sempre una decisione umana di “revisione” di quanto scelto o determinato dalle “macchine” e pretende anche quello di “staccare la spina” dal lavoro così da non imporre ai dipendenti il rispondere a chiamate o e-mail fuori dagli orari stabiliti e contrattualizzati.
Infine il Trades Union Congress reclama che vengano apportate adeguate modifiche alla legislazione britannica per ottenere una efficace protezione contro la discriminazione mediante algoritmi, dinamica fin troppo ben documentata negli ultimi anni.
Se qualcuno volesse trovare degli spunti può leggersi il “Manifesto” del TUC. Visto l’analfabetismo dilagante tra chi ha immeritati posti di responsabilità grazie a millesimate lottizzazioni, è opportuno specificare che non si tratta di un poster pubblicitario di golosi cracker salati e – a titolo collaborativo – si segnala che qui è disponibile il documento.
La latitanza istituzionale su questo fronte rimbomba fragorosamente.
Personaggi in giacca e cravatta applaudono l’apertura di nuovi centri logistici o di altre realtà produttive disumanizzate nell’incauta illusione che siano imperdibili opportunità di occupazione per i giovani.
Nel pieno del negazionismo dell’evidenza, il passo successivo potrebbe essere il voler credere a quel “il lavoro rende liberi” le cui lettere sormontavano cancelli da non dimenticare. Lo sterminio della dignità deve essere fermato.