A giorni si torna alla “normalità” e quindi verranno meno le disposizioni che (non) disciplinavano il ricorso allo smart working. La gente tornerà in ufficio “in presenza” per la gioia orgasmica di chi è convinto che lavorare significhi stare alla scrivania (anche a guardar per aria, a giocare con i videogames, a “postare” idiozie sui social, a vedere film “on demand” o sulla pendrive USB…).
La vera pandemia – immanente e non in essere solo da febbraio 2020 – è quella della cecità strategica che affligge chi dovrebbe occuparsi del futuro della collettività. Il sadomasochismo della frusta da far schioccare in prossimità del dipendente tenuto al guinzaglio e la cultura del monopattino elettrico come panacea della mobilità sostenibile dominano la scena e non sembra ci sia assolutamente verso di cambiare la rotta che sta portando questo Paese felicemente alla deriva.
Lavorare da casa (o dalla spiaggia o in mezzo ad un prato) è visto (forse per retaggio personale di chi si fossilizza su certi stereotipi) come una elusione dei propri doveri di servitore (servitore, mi raccomando, non servo) dello Stato. Nessuno si è preso la briga di valutarne la reale portata, di considerarne i vantaggi per l’azienda/ente e per chi opera a distanza, di studiarne le migliori soluzioni anche in termini di sicurezza e di riscontro dei risultati, di disciplina delle corrette modalità di prestazione , di pianificare l’implementazione di una architettura telematica idonea ad un simile salto.
Cominciamo ad eliminare due termini abusati, “smart” e “agile”. Perché? Semplice. Se lavorare da casa è “smart”, vuol dire che farlo in ufficio è “stupid”?
“Agile”? Ma siete mai stati a casa di una famiglia che vive in un bilocale, papà e mamma che cercano di connettersi con il sistema informatico del rispettivo datore di lavoro, i figli – magari due – in DAD, la linea “telefonica” che non regge il peso del collegamento?
Diamo il via alla “transizione etimologica” e iniziamo ad adoperare le parole corrette, magari facendo il piccolo ma sopportabile sforzo di utilizzare termini italiani così da esser “patrioti” almeno nell’eloquio. Parliamo, anche se è meno fascinoso (“charmant” preferirebbero gli irriducibili francofoni), di lavoro da remoto, qualunque sia il luogo in cui si trovi il soggetto dipendente o collaboratore.
La formula in questione non ha bisogno di epidemie globali per essere applicata. E’ una modalità che – sembrerà strano – non ha necessità della diffusione di un virus malefico per dimostrare la sua efficacia.
Potrà apparire ancor più bizzarro ma lo smart working lo si può sfruttare anche quando si tornerà alla vita normale. Forse lo si potrà fare ancor più proficuamente perchè – reduci dall’esperienza forzata – andrà a configurare uno degli assi portanti della rivisitazione dei contratti di lavoro.
La previsione stabile della prestazione a distanza imporrà una seria ricognizione di tutte le attività che non impongono la presenza fisica del lavoratore in ufficio. Molti “mestieri” non potranno contemplare questa opportunità, ma tanti altri possono rivelarsi “praticabili”. Dovranno essere codificate le procedure, definiti diritti e doveri (su entrambi i fronti), istruiti i dipendenti, approvvigionati i “materiali” (computer, tablet, smartphone) e i servizi (software, connessione ad Internet…), verificati i livelli di efficienza e quelli di sicurezza, fissati i livelli di produttività definendo le metriche e le dinamiche di computo/riscontro, eseguiti i collaudi iniziali e i test periodici di verifica.
Sul tavolo delle trattative costi e benefici non tarderanno a delinearsi. Aziende ed enti dovranno sostenere un discreto investimento tecnologico, educativo ed organizzativo, ma potranno ridurre significativamente gli spazi finora indipsensabili per ospitare scrivanie ed occupanti. Sull’altro fronte i lavoratori devono riconoscere di “guadagnarci” in termini di qualità della vita: oltre all’orario fuori casa diminuito del tempo di andata e ritorno, niente spostamenti (i pendolari sarebbero i primi a gioirne), niente spese nè rischi di trasporto, niente stress nel traffico, niente mensa o panino… Il risparmio può essere facilmente quantificabile e nel “conto” va messo anche il non edificante ridursi delle opportunità di relazione umana con i colleghi (l’isolamento è senz’altro un punto critico da non trascurare) e la reperibilità costante che si profila inevitabile.
Probabimente chi sceglie lo smart working (o vi viene assegnato) percepirà una retribuzione un pochino ridotta rispetto lo stipendio riconosciuto a chi fisicamente “timbra il cartellino”. Un punto di reciproca convenienza non sarà impossibile da trovare.
Non saranno felici di una simile rivoluzione i proprietari degli “immobili uso ufficio” che potrebbero assistere ad un non trascurabile svuotamento dei locali finora operativi, i gestori delle mense interne e quelle dei locali di ristorazione nelle zone ad elevata presenza impiegatizia, gli operatori del contesto automobilistico (fabbricanti, concessionari, meccanici, carrozzieri, benzinai…).
Non esiteranno a gioire gli utenti del servizio di trasporto pubblico (che vedranno bus, metro e treni “alleggeriti” e poi meno auto in città), i cacciatori di parcheggio nelle strade del centro, gli ecologisti (che apprezzeranno il minore inquinamento atmosferico e acustico) e chissà quanti altri.
Le considerazioni potrebbero proseguire all’infinito. Il solo cimentarsi a ragionare su questo tema è segno di maturità. Purtroppo in questo Paese devastato dall’incompetenza e da un’errata interpretazione della cieca e genuflessa subordinazione all’organizzazione di appartenenza, molti piccoli “capi” avevano già cominciato ad invitare i sottoposti a rientrare in ufficio a dispetto della legittimità vigente per legge e per disciplina aziendale.
I lavori parlamentari per immaginare il lavoro agile come modalità alternativa di prestazione d’opera arrancano, le “contrattazioni individuali” non vedono in posizioni paritarie datore di lavoro e dipendente, l’ illusione di un traguardo a breve è destinata a restare un miraggio. Nemmeno la crisi energetica diretta conseguenza della belligeranza regalataci da Putin porta ad optare per un lavoro a distanza per far risparmiare benzina. Neppure gli ambientalisti…
Quell’incredibile “ormai lo smart working è finito” etichetta automaticamente chi pronuncia la frase, ci dà nitida idea di quanto valga l’odierna classe manageriale e spegne ogni speranza di un futuro migliore.