Stavolta scriverò qualcosa di particolarmente noioso reso ancora più indigesto da alcuni riferimenti autobiografici che tuttavia cercherò di contenere a quelli strettamente funzionali a ciò che intendo rappresentare.
Scopo di questo breve scritto è fornire a chi ne sia completamente digiuno qualche elemento per comprendere alcuni aspetti degli attuali scenari bellici.
L’arma di Artiglieria nel corso della sua storia secolare ha conosciuto periodi di alterne fortune.
Tralasciando i dettagli e limitandoci ai momenti salienti possiamo affermare che essa ha raggiunto l’apice della popolarità
nell’era napoleonica: non è infatti un mistero che Napoleone provenisse proprio da quell’Arma e che abbia iniziato la sua inarrestabile ascesa mettendosi in mostra da semplice sottotenente durante l’assedio di Tolone.
“Le battaglie si vincono con l’artiglieria” era una delle sue frasi ricorrenti ed in effetti fu un maestro in quelli che tecnicamente si definiscono manovra del fuoco e cambio di schieramento, due mosse tattiche che non riuscì ad attuare a Waterloo (tant’è che perse) per tutta una serie di contingenze che sarebbe difficile riassumere in questo contesto.
Dopo alterne vicende l’Artiglieria tornò protagonista nei campi di battaglia della prima guerra mondiale grazie a canne rigate, polveri senza fumo e proietti più efficienti.
Petain a Verdun, un secolo dopo Waterloo, richiamandosi sostanzialmente agli stessi principi napoleonici, affermava che “l’artiglieria conquista e la fanteria occupa”.
Nella seconda guerra mondiale però l’artiglieria iniziò a perdere parte del suo primato tattico a vantaggio di due formidabili rivali che si affacciavano sulla scena: l’aviazione ed i mezzi corazzati.
L’artiglieria manteneva la sua importanza ed in alcune battaglie fu ancora decisiva, ma per poter espletare appieno la sua funzione doveva poter contare su di una situazione di supremazia aerea.
Per il resto la guerra di movimento basata sul veloce spostamento di ingenti masse di mezzi corazzati e meccanizzati, il cui principale teorico fu il tedesco Guderian,
costrinse ad un ripensamento delle tradizionali modalità di impiego di quest’Arma.
Dopo la seconda guerra mondiale il vantaggio acquisito dall’aviazione sull’artiglieria divenne (apparentemente) incolmabile.
Corea prima e Vietnam poi sancirono il definitivo primato dell’aviazione, primato che andò consolidandosi fin quasi ai giorni nostri attraverso Kosovo, Somalia, Iraq e Afghanistan.
L’elicottero da combattimento si qualifico’ come il più accreditato erede di quello che era stato il tradizionale impiego dell’Artiglieria, vale a dire il supporto in aderenza all’azione delle truppe sul terreno.
Velocità di intervento, raggio d’azione,
flessibilità, manovrabilità e potenza di fuoco i principali fattori che contribuirono al successo degli elicotteri in particolare e dell’aviazione in generale (basti pensare alle “cannoniere volanti” americane AC 130 o all’ A 10 Warthog).
Dopo questa carrellata necessariamente veloce e approssimativa arriviamo ai giorni nostri per scoprire che l’artiglieria è inopinatamente tornata in auge grazie al conflitto russo-ucraino.
Per la verità i russi hanno sempre avuto nel loro dna la tendenza a risolvere le controversie a cannonate e lo spiegamento massivo di artiglierie (convenzionali o a propulsione) può essere considerato un carattere distintivo delle loro tattiche insieme ai classici movimenti a tenaglia dei mezzi corazzati finalizzati a chiudere gli avversari nelle famigerate
sacche (dove finirono anche le truppe italiane nel corso dell’ultimo conflitto mondiale).
I meno giovani ricorderanno probabilmente le tensioni del 1969 sul confine dell’Ussuri tra i russi ed i vicini cinesi con questi ultimi che tentavano continue infiltrazioni ammazzando le guardie di frontiera siberiane.
Ad un certo punto i russi si stancarono di questo giochetto e la misero sul pesante spazzando via una divisione cinese a cannonate.
Ora nel terzo millennio il drammatico scenario ucraino mostra che l’artiglieria è tornata a svolgere un ruolo centrale in ambo gli schieramenti, anche a scapito dell’arma aerea e vorrei provare qui ad elencare i motivi più evidenti di questa “resurrezione”.
Partiamo dai costi: avevamo ancora le lire ed un FH 70 all’epoca il pezzo più avanzato di cui disponesse l’esercito italiano costava 2,7 mld contro i 35 mld di un Tornado.
Oggi un caccia di quinta generazione può costare dagli 80 ai 150 mln di dollari, ai quali si aggiungono i costi di esercizio e di formazione /addestramento del personale, a partire dal pilota per arrivare allo stuolo di meccanici/tecnici indispensabili per tenerlo in linea.
Ovvio che ci sia qualche giustificata reticenza nel rischiare che tutto questo enorme valore possa essere dissolto da un fantaccino con un lanciarazzi da spalla tipo Javelin da 256 mila euro.
Ora arriva l’annunciato e temuto (per chi
legge) momento dello sconfinamento nel vissuto personale per arrivare ad individuare i fattori che sembrano aver riportato in auge l’Artiglieria.
Nel 1979 prestai servizio come Sottotenente di Complemento proprio in Artiglieria, malgrado le avessi tentate tutte per evitare di finire “dietro ai pezzi”.
Il mio sogno nel cassetto era infatti quello di divenire assaltatore frequentando il corso AUC alla Scuola di Fanteria di Cesano, ma non ci fu niente da fare.
Pur essendo in possesso di tutti i requisiti (ottima condizione fisica, pratica in sport da combattimento, pratica agonistica in diverse specialità di tiro) grazie alla ferrea logica che a volte governa le scelte militari mi ritrovai in un’arma tecnica e tutto sommato sedentaria rispetto a quello che
avevo in mente io che volevo diventare Bersagliere.
In compenso miei compagni di liceo laureatisi brillantemente in ingegneria che avrebbero trovato di una facilità irrisoria materie del corso per me insormontabili, sputavano sangue con il movimento a sbalzi su e giù per le collinette di Pian di Spille e Monte Romano glorificando quotidianamente tutti i santi del calendario.
L’Artiglieria all’epoca era la quarta arma dell’Esercito dopo Carabinieri, Fanteria e Cavalleria. A seguire il Genio e le Trasmissioni il che può già fornire qualche indicazione sullo scarso appeal di cui godeva quella che veniva autodefinita “l’Arma dotta” forse proprio per sublimare la frustrazione derivante dal sentirsi delle cenerentole.
Tutto l’addestramento era infatti pervaso dalla malinconia derivante dall’appartenenza ad una specie ritenuta in via di estinzione.
Materiali ed equipaggiamenti dimostravano del resto la scarsa attenzione verso quest’Arma: i pezzi della mia batteria erano obici americani del 1943 ed il resto era ancora più datato.
Il leit motiv che mestamente guidava tutto l’addestramento era: “oggi una batteria una volta che ha sparato è destinata ad essere immediatamente individuata ed annientata”.
La sensazione di appartenere ad un passato ormai tramontato era accentuata dalla location, che era una caserma inaugurata nel 1884 e rimasta pressoché invariata da allora.
Già ai miei tempi però tra le varie caratteristiche del materiale di artiglieria primeggiava la “rusticità” e vi prego di credere che i 155/23 più rustici di così non potevano essere.
Parliamo di 54 quintali di acciaio che non si scalfiva nemmeno a martellate: non si rompevano mai per la semplice ragione che non c’era nulla che potesse rompersi.
Basti pensare che il congegno di sparo era un martelletto cui si legava un pezzo di fune con un moschettone: si tirava la fune agganciata alla base del martelletto la testa del quale picchiava sull’innesco….niente molle, niente viti, niente ingranaggi: solo pezzi di ferro.
In realtà una cosa che si poteva rompere c’era ed era il cannocchiale panoramico, che infatti il capo pezzo consegnava al
puntatore con la stessa riverenza che avrebbe riservato al Santo Graal, ritirandolo a fine esercitazione con la medesima cautela.
Per il resto l’addestramento dei serventi era banale, con l’eccezione del puntatore che era un po’ più sofisticato, ma nemmeno tanto: si trattava infine di inserire con due ghiere gradate i dati di tiro (direzione ed alzo) sul cannocchiale panoramico assicurandosi che la bolla fosse a livello.
I dati venivano poi controllati dal capopezzo e quindi dal comandante di sezione: possibilità di errore minima per un’attività che un soggetto normodotato imparava in massimo un quarto d’ora.
Tutto il resto era lavoro muscolare per sganciare, spostare, mettere in batteria 54
quintali di acciaio che sparava granate da 43 kg l’una.
Nulla di nemmeno lontanamente paragonabile all’addestramento non dico di un pilota, ma nemmeno di un meccanico adibito alla manutenzione di un moderno aviogetto.
In aperto conflitto di interessi avendovi partecipato convintamente, sostengo che i corsi AUC (Allievi Ufficiali di Complemento) erano una cosa abbastanza seria.
Certo chi usciva da un corso di cinque mesi ancorché full immersion non poteva competere con la formazione acquisita da un Ufficiale Subalterno del Ruolo Normale (allora così venivano definiti gli Ufficiali usciti dall’Accademia Militare).
Tuttavia i sottotenenti di prima nomina erano più o meno in grado di tenere botta per 10 mesi come Comandanti di plotone o, nel caso dell’Artiglieria, di sezione.
Che l’addestramento fosse serio e senza sconti lo dimostra il fatto che ancor oggi, dopo 44 anni in cui mi sono occupato di tutt’altro, ricordi perfettamente tutte le fasi relative alla cosiddetta “messa in batteria”.
In realtà si trattava di operazioni piuttosto macchinose che riassumo non per dare una dimostrazione della brillantezza della mia memoria a distanza di oltre quarant’anni, ma per spiegare lo scarso apprezzamento riscosso
dall’Artiglieria in quel periodo.
Tralasciamo i dettagli relativi alla fase preparatoria (ricognizione, orientamento del goniometro di batteria, tracciamento
della linea zero) che comunque erano essenziali e richiedevano il loro tempo.
Nel caso dell’artiglieria trainata, bisognava sganciare l’obice dalla motrice, spostarlo nel punto in cui doveva essere messo in batteria e picconare il terreno predisponendo l’invito per i vomeri, tutte operazioni che venivano eseguite a forza di braccia in tempi che erano una derivata prima della qualità e della motivazione dei serventi coinvolti nell’operazione.
Alla fine i 6 pezzi venivano schierati su di un fronte di 300 mt che diventavano 350 includendo il goniometro di batteria sul quale azzeravano i cannocchiali panoramici dei singoli pezzi.
Nel frattempo il comandante della batteria in qualità di UO (Ufficiale Osservatore) si portava in prossimità dell’obiettivo,
rilevava le coordinate e le trasmetteva al centro tiro che con tavolo da disegno, matita, gomma, riga e squadra le trasformava in dati di tiro.
Questa era l’attività a maggior valore aggiunto che per me presentava difficolta’ sovrumane mentre i miei compagni di corso (non solo quelli laureati in ingegneria, matematica o fisica, ma anche qualche onesto geometra) giudicavano invece offensive per una intelligenza media.
Tali dati venivano trasmessi al primo pezzo che iniziava l’aggiustamento seguendo le indicazioni dell’UO finché non veniva realizzata la cosiddetta “forcella” cioe’ due colpi a cavallo dell’obiettivo.
A questo punto dopo un’ultima correzione i dati venivano trasmessi all’intera batteria
che iniziava il fuoco d’efficacia.
Questa noiosa e puntigliosa elencazione potrebbe far pensare alle battaglie risorgimentali, ma si era nel 1979 quando splendidi jet da combattimento sfrecciavano nei cieli gia’ da una trentina d’anni.
Quarant’anni dopo però, il conflitto in Ucraina ha ridato vita a questa specialità che sembrava destinata all’oblio.
La presenza di aerei appare rarefatta (quelli ucraini per scarsa disponibilità, i russi per prudenza e problemi di logistica) e non si parla altro che di obici, cannoni, semoventi o lanciarazzi.
La variabile tempo che quarant’anni fa appariva come il fattore che avrebbe decretato la scomparsa dell’artiglieria, oggi è mitigata dalle moderne tecnologie
di acquisizione obiettivi (satelliti, droni, rilevatori laser, gps, software per la conversione di dati topografici in dati di tiro ecc).
In questa fase i russi non fanno altro che schierare ed utlizzare obici, cannoni e lanciarazzi ed anche gli ucraini dal canto loro, dopo le generiche richieste iniziali che comprendevano dalle fionde agli F 35, chiedono ora quasi esclusivamente obici, cannoni e lanciarazzi.
Anche l’aspetto mediatico è cambiato: prima venivano trasmessi video di guerrieri barbuti e impolverati che brandendo le armi inneggiavano ai risultati conseguiti ed alla ferrea volontà con la quale avrebbero annientato il nemico.
Ora appaiono ufficiali in uniforme stirata in modo impeccabile e perfettamente rasati
che illustrano con l’ausilio di supporti audiovisivi e cartine le immagini pirotecniche degli obiettivi fatti saltare a forza di razzi e cannonate.
Al di là delle noiose motivazioni tecniche, quale può essere la chiave di lettura di questi scenari dove la velocità di spostamento e la rapidità nel colpire non sembrano più essere la priorità che ha condizionato i conflitti degli ultimi decenni?
Dove con relativa calma (siamo pur sempre in guerra) si sistemano i pezzi e ci si prende allegramente a cannonate per tutto il tempo necessario?
Userò una metafora ricorrendo al tennis: questa è una partita dove non c’è il campione che cerca il punto risolutivo con lo smash sotto rete.
Ci sono invece due “pallettari’ che tirano mazzate da fondo campo: vince chi regge il ritmo e sbaglia meno.
La partita quindi rischia di essere noiosa…e molto lunga.