Immersi quotidianamente nel ribollente calderone mediatico, facciamo sempre più fatica a distinguere tra percezione e realtà, tra stati d’animo/sensazioni e stati di coscienza/elementi oggettivi.
Il tema non è banale perché in almeno due ambiti il percepito orienta i comportamenti più ancora della realtà: in economia e nella sicurezza.
Non a caso John Maynard Keynes definiva “animal spirits” quelle forze occulte e fondamentalmente irrazionali che condizionano, quando addirittura non orientano, il comportamento umano in generale e l’andamento dei mercati in particolare.
In questa circostanza incentrerò le mie considerazioni sull’ambito della sicurezza, adottando una prospettiva sociologica che, con l’aiuto di qualche dato, possa fornire una chiave di lettura dei tempi confusi che stiamo vivendo.
Per fare questo orienterò la mia esposizione su quattro direttrici:
1) La situazione attuale
2) Impatto dell’immigrazione sul socialmente percepito.
3) motivazioni che possono aver contribuito ad originare tale percezione.
4) Rapporto cittadini/Forze dell’Ordine.
LA SITUAZIONE ATTUALE
Tutte le rilevazioni statistiche, seppur con criteri e numeri diversi, confermano il profondo senso di insicurezza che pervade il nostro tessuto sociale.
Due terzi degli italiani hanno mantenuto lo stesso livello di insicurezza che avevano espresso in occasione delle precedenti rilevazioni, mentre il restante terzo l’ha addirittura peggiorato.
Quasi la metà degli italiani (46,4%) ha una percezione negativa del controllo del territorio da parte delle Forze dell’Ordine ed oltre il 38% ha modificato le proprie abitudini per timore della criminalità.
Ho estrapolato questi pochi numeri dall’enorme mole dati che vengono periodicamente prodotti da ISTAT, Censis e Ministero degli Interni, limitandomi a quelli che ritenevo più semplici ed accessibili, superando le difficoltà dovute al fatto che le fonti, per le differenti metodologie di campionamento e calcolo, pur confermando i trend spesso non coincidono nelle numeriche.
I dati relativi alla insicurezza sociale (quindi al “percepito”) non trovano però conferma nella situazione reale.
Questo perché in Italia i reati sono in costante diminuzione e guardando ai dati risultiamo essere addirittura tra i paesi più sicuri al mondo.
Il numero di omicidi per 100 mila abitanti ci posiziona infatti meglio di paesi che nell’immaginario collettivo rappresentano delle roccaforti della legalità e della sicurezza quali ad esempio Germania, Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Australia, Danimarca, Svezia e Canada.
Per gli amanti delle classifiche la maglia nera spetta a El Salvador con 109 omicidi ogni 100 mila abitanti.
Un altro diffuso convincimento che non ha invece alcun riscontro statistico è che i maggiori tassi di criminalità riguardino il meridione del Paese.
Ciò può essere parzialmente vero per alcune tipologie di reati (estorsioni, minacce, tentati omicidi, furti di auto, rapine) ma approfondendo l’esame dell’indice di criminalità le risultanze appaiono ben diverse.
Infatti nei primi dieci posti della classifica relativa al totale dei reati commessi in Italia non compare nessuna provincia meridionale, mentre ai primi tre posti figurano Milano, Bologna e Rimini.
Le aperture per tipologia di reato sono pressoché infinite, ma soffermandoci sulle più singolari vedremo che anche per quanto riguarda lo sfruttamento della prostituzione e la pornografia minorile risulta l’assenza delle province meridionali, mentre rimarremo forse sorpresi di trovare tra le prime Genova, Venezia, Gorizia e Verbania.
Idem per i furti, dove alla bistrattata Napoli spetta un modestissimo decimo posto in una graduatoria in cui primeggiano Milano, Rimini e Bologna.
Anche i furti in abitazione presentano qualche sorpresa con una classifica guidata da Ravenna, Bologna e Modena mentre Napoli è al 97° posto (Verona è al 30° tanto per fare un paragone).
Ovviamente non è così per tutti i reati, perché ad esempio per l’associazione di stampo mafioso troviamo prevalentemente province meridionali, così come per i furti di auto, ma la risultante complessiva ponderata sul numero dei reati e degli abitanti fornisce le evidenze che ho rappresentato.
Una menzione a parte meritano i reati informatici.
Questo perché in un decennio, a fronte di un calo del 29% degli altri reati, truffe/frodi informatiche e delitti informatici hanno invece evidenziato crescite rispettivamente del 151% e del 216%.
Tale andamento in controtendenza si è rafforzato a seguito del lockdown con un incremento rispettivamente del 14% per truffe e frodi informatiche e del 17% per i delitti informatici, a fronte di un calo generalizzato degli altri reati del 19%.
Questo macroscopico fenomeno, oltre a comportare notevoli danni economici, costituisce un freno sulla via della modernizzazione, dove peraltro il nostro Paese registra già sensibili ritardi.
Infatti il 31% degli italiani non si sente sicuro nell’effettuare operazioni bancarie online e questa percentuale cresce nei soggetti con età avanzata e basso tasso di scolarizzazione.
Inoltre il 25% degli italiani ha timore nell’effettuare acquisti on line e questa percentuale sale al 55% per chi ha come titolo di studio massimo la terza media ed al 61% per la popolazione più anziana.
IMPATTO DELL’IMMIGRAZIONE SUL SOCIALMENTE PERCEPITO
Un altro fattore che contribuisce ad aumentare la sensazione di insicurezza è genericamente rappresentato dell’immigrazione.
Scrivo “genericamente ” perché l’universo che viene ricompreso nel termine “immigrazione” è estremamente variegato e complesso.
Per ragioni di tempo e spazio mi limiterò a considerare le due macro categorie degli immigrati regolari e dei clandestini.
In questo caso il tema prima ancora di investire aspetti riconducibili alla pubblica sicurezza, è di natura prevalentemente politica poiché si scontrano due concezioni del fenomeno: una che potremmo definire “progressista” che asserisce che non ci sia una correlazione tra immigrazione e criminalità mentre l’altra sostiene l’esatto contrario.
I primi a sostegno della propria posizione affermano tra l’altro che nelle nostre carceri ci siano più italiani che immigrati.
Vediamo di mettere un pò di ordine in questa contesa con l’aiuto delle numeriche e facendo una distinzione tra immigrati regolari e clandestini.
La popolazione carceraria italiana conta 54 mila individui di cui il 32% sono immigrati (17.300).
Quindi è vero che nelle carceri italiane ci siano più italiani che stranieri.
Se però andiamo a calcolare un tasso di criminalità riferito ai bacini di popolazione di provenienza avremmo nel caso degli italiani un rapporto di 0,09.
Se rapportiamo il numero di detenuti stranieri agli immigrati regolarmente presenti sul nostro territorio (5,8 milioni) avremmo già un tasso dello 0,29 e quindi 3 volte superiore a quello italiano.
Ma anche questo dato sarebbe poco significativo perché gli stranieri presenti nelle nostre carceri sono quasi esclusivamente clandestini e pertanto sarebbe più corretto calcolare un indice riferito a questo bacino di provenienza.
Qui il discorso diventa ancora più complesso perché i dati relativi alla presenza dei clandestini si basano prevalentemente su stime, essendo impossibile censire tale fattispecie.
Secondo le proiezioni i clandestini ammonterebbero a 610 mila unità: assumendo questo dato al denominatore avremmo un tasso di criminalità del 2,8 % , vale a dire 31 volte superiore allo stesso rapporto calcolato su popolazione italiana.
Per quanto riguarda il ritmo dei rimpatri si è passati dai 6.400/anno ante pandemia ai meno di 3 mila attuali, il che significherebbe, sic res stantibus, che occorrerebbero 203 anni per rimpatriare tutti i clandestini nell’irreale ipotesi che nel frattempo non ne giungano altri (del resto anche al ritmo di 7 mila rimpatri l’anno la situazione non cambierebbe nella sostanza, perché l’operazione richiederebbe comunque 87 anni per essere ultimata).
Un altro parametro di valutazione dell’entità del fenomeno è che se davvero la stima di 610 mila clandestini fosse reale, questo numero rappresenterebbe il doppio di tutti gli appartenenti alle quattro Forze di Polizia dello Stato Italiano messe insieme ( Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria contano infatti totalmente 306.500 unità).
In questo caso quindi potremmo affermare che il socialmente percepito riguardo all’ipotesi di criminalità correlata ad una certa immigrazione abbia un fondamento statistico, ma va considerato un ulteriore fattore di correzione dato dalla “visibilità ” di alcuni reati, una visibilità che spesso è inversamente proporzionale alla gravità del reato stesso.
In quest’ottica a minare le fondamenta della sicurezza sociale non è tanto l’attività malavitosa delle grandi organizzazioni criminali che anzi per sua stessa natura viene condotta con modalità il più possibile “discrete ” al fine di non richiamare l’attenzione di Magistratura e Forze dell’ordine.
Sono invece gli episodi di microcriminalità, non disgiunti dal degrado di alcune aree urbane, che impattano maggiormente sul vissuto quotidiano dei cittadini incrinando la fiducia nello Stato.
Spaccio, risse, accattonaggio molesto e, soprattutto, arroganza ed indifferenza nei confronti della divisa da parte di soggetti spesso giovanissimi, hanno un effetto dirompente sulla struttura di valori fondamentali, in particolare per i più anziani.
MOTIVAZIONI CHE POSSONO AVER CONTRIBUITO AD ORIGINARE UNA PERCEZIONE DI CRESCENTE PERICOLO SOCIALE
La domanda di fondo è perché oggi ci sia una paura maggiore rispetto all’immediato dopoguerra, quando pericoli di ogni tipo inclusi quelli riferiti ad eventi criminosi erano nettamente superiori a quelli che corriamo oggi.
Una risposta compiuta a questo quesito ci porterebbe indietro fino al medioevo, quando la sensibilità sociale verso la violenza era bassissima.
La morte a seguito di uccisioni o epidemie era visibile nelle strade creando assuefazione tant’è che la pena capitale non era più nemmeno sufficiente come deterrente e questo portò all’adozione della tortura, meglio se pubblica.
Nel dopoguerra la situazione non era molto diversa rispetto a tempi più antichi:
morte e distruzioni erano state vissute in prima persona da quella generazione che, fatto non secondario, era caratterizzata da un’età media molto più bassa rispetto a quella della società italiana di oggi e nei giovani notoriamente è più frequente riscontrare atteggiamenti di sottovalutazione dei pericoli rispetto agli anziani.
Inoltre i media erano scarsi e di accesso limitato: l’anafalbetismo era esteso, la televisione non esisteva e non tutti possedevano la radio.
Anche la rappresentazione mediatica degli eventi criminosi tendeva ad una certa scarna sobrietà, enfatizzando invece i successi conseguiti dalle Forze dell’Ordine.
Ai giorni nostri la morte rispetto ad allora è un tabù: viene circoscritta in spazi dedicati, rendendola il meno visibile possibile anche nascondendola sotto un lenzuolo o un paravento quando non si possa fare diversamente e ciò sicuramente ha contribuito ad acuire la sensibilità collettiva verso eventi mortali o comunque violenti, sviluppando nel contempo una certa morbosa curiosità verso tali situazioni proprio per la rarefazione delle stesse.
Oggi abbiamo una popolazione con un’età media avanzata, che trascorre molte ore davanti ad una TV che oltre a riportare il fatto efferato, lo replica in infinite cosiddette trasmissioni di approfondimento che in realtà altro non sono che voyeuristiche rappresentazioni di dibattiti sugli aspetti più truculenti della vicenda, a volte a distanza di anni dell’avvenimento.
Inoltre si realizza una “cassa di risonanza mediatica inversa” dove ai successi riportati dalle Forze dell’Ordine viene dedicato uno spazio limitatissimo, mentre l’episodio criminale occupa la ribalta per settimane, in ossequio al principio che un cane che morde un bambino fa meno notizia di un bambino che morde un cane.
L’effetto è quello di uno straniamento dell’anziano, a volte inconsapevole del fatto che il crimine presentato in televisione cinque volte nella stessa giornata sia sempre lo stesso, magari accaduto 10 anni prima.
Inoltre in un arco di tempo relativamente breve si è dissolta una struttura di relazioni sociali improntata all’agorà che consentiva un fortissimo controllo sociale derivante dal fatto che si stava tutti in piazza, ci si conosceva tutti e si sapeva benissimo chi fosse un delinquente in fieri o in atto.
Parroco e maresciallo dei Carabinieri sapevano tutto di tutti, bastava una loro occhiataccia per ricondurre a miti consigli anche i più scalmanati e su queste due figure poggiava concretamente il sentimento di ordine e legalità della comunità.
Oggi in un condominio di 12 appartamenti non si sa nemmeno chi sia l’inquilino dell’appartamento adiacente al proprio e dal derivante senso di solitudine e anonimato scaturiscono quella indifferenza, quella mancanza di solidarietà e quella paura che tanto spesso fanno volgere la testa altrove di fronte ad una richiesta di aiuto.
RAPPORTI TRA CITTADINI E FORZE DELL’ORDINE
La trattazione di questo paragrafo si presenta particolarmente scivolosa, costringendoci a causa di un più debole supporto della statistica a riportare stati d’animo diffusi, ma privi del rigore della ricerca sul campo.
Partiamo quindi dai pochi numeri che abbiamo: quasi la metà degli italiani ritiene insufficiente la presenza delle Forze dell’Ordine sul territorio, il che viene immediatamente tradotto in una cronica carenza di organici.
Spulciando però i dati prodotti dall’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano questa percezione non trova conferma.
Per il nostro Paese risulta infatti un rapporto di 453 tutori dell’ordine x 100 mila abitanti vs una media UE di 355 agenti x 100 mila abitanti.
A titolo di esempio: la Gran Bretagna ha un rapporto di 211 agenti x100 mila abitanti, la Germania 297 agenti x100 mila abitanti, la Francia 320 agenti x100 mila e la Spagna 361 agenti x 100 mila abitanti.
Anche correlando questo indicatore al numero dei reati la risultante non cambia in quanto l’Italia risulta essere dell’11,7% sopra la media europea quanto a numero di reati, ma sfora in modo più che proporzionale la media europea relativa agli organici di Polizia attestandosi al + 27,6%.
Guardando a questi numeri si sarebbe portati a pensare che il problema non sia la quantità delle risorse quanto piuttosto la modalità del loro utilizzo e la visibilità sul territorio che innegabilmente rappresenta un fattore estremamente rassicurante per il cittadino.
Quante volte noi stessi vedendo uno scriteriato zigzagare in autostrada a 200 km/h o un furgone piombarci sfanalando alle terga a velocità ben oltre i limiti, abbiamo mentalmente invocato una pattuglia della Polstrada senza incontrarne una per centinaia di chilometri ?
E quante volte abbiamo provato un senso di frustrazione vedendo le Forze dell’Ordine fermare a mezzogiorno di giorni festivi per pedissequi controlli automobili con famigliola e tanto di materassino regolamentare che rientravano dal mare mentre quegli stessi agenti li avremo visti molto più volentieri nel parco vicino casa dove spacciatori e tossicodipendenti imperversano in pieno
giorno o altrettanto volentieri li avremmo voluti nei pressi del portone delle nostre abitazioni dalle quali a volte è pressoché impossibile uscire la sera a causa della cosiddetta “movida selvaggia”?
Quanti di noi all’indomani del tragico incidente in cui ha perso la vita un giovane sinti si è chiesto come fosse possibile che una supercar da 200 mila euro con due ventenni a bordo potesse sfrecciare nottetempo tra le altre auto a 300 km/h sul Raccordo Anulare di Roma senza che se ne accorgesse nessuno se non a schianto avvenuto?
Quanti di noi vedendo auto civili con lampeggiante acceso ed il solo autista a bordo chiedere imperiosamente strada o impegnare la corsia di emergenza per districarsi dall’ingorgo autostradale si sono domandati in soccorso di quale alto personaggio istituzionale stesse accorrendo il solerte e solitario angelo custode?
Quanti di noi si sono interrogati sui 2.300 agenti impegnati nel servizio di scorta di 600 persone tra cui soggetti decaduti dai propri incarichi da anni ed ai quali la scorta viene mantenuta solo “perché così è previsto”?
Purtroppo sono domande come queste, o per meglio dire, l’assenza di risposte a domande come queste che scavano un solco tra cittadini e istituzioni.
Per rispondere a queste domande bisognerebbe affrontare dei nodi organizzativi sicuramente al di fuori ed al di sopra delle finalità di questa esposizione.
Posso solo provare ad elencarne due a titolo di esempio.
Il primo è quella della storica sovrapposizione di compiti tra le forze di Polizia, alla quale comunque in qualche modo si è tentato di porre rimedio dal 2015/2016 varando organismi e norme di coordinamento ad hoc che in alcuni casi hanno delimitato specifici ambiti di competenza.
La seconda è quella della vastità dei compiti amministrativi che gravano sulle Questure, articolate perciò in molteplici uffici con a capo altrettanti Funzionari di Polizia che si avvalgono di numerosi agenti per svolgere attività impiegatizie che forse potrebbero essere demandate ad altre strutture pubbliche presenti sul territorio.
Per affrontare questo aspetto bisognerebbe però mettere mano al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza che al momento attribuisce in via esclusiva alla Polizia di Stato le funzioni di polizia amministrativa.
Il vero interrogativo riguarda però la grande arretratezza tecnologica in cui versa il nostro Paese che non riesce nemmeno a far funzionare come si deve i tutor quando le possibilità offerte dalle tecnologie digitali per il controllo integrato e millimetrico del territorio sono pressoché infinite e vanno ben oltre la semplice ancorché necessaria attività di rilevazione degli eccessi di velocità.
Probabilmente al cittadino medio questo tipo di analisi interesserebbe poco: forse si accontenterebbe di qualche uniforme in più in strada, possibilmente rispettata.
Ma tutto quanto riportato in quest’ultimo paragrafo riguarda prevalentemente la politica….e qui purtroppo siamo messi malissimo.