Ciò che scriverò oggi non può definirsi “articolo ” essendo privo di una base oggettiva soprattutto sotto il profilo giuridico e statistico.
Si tratta piuttosto di una riflessione da uomo della strada su alcune delle tante incongruenze, probabilmente nemmeno particolarmente significative, che scavano quotidianamente abissali distanze tra il mondo reale e la “cosa pubblica”.
Ad una prima lettura i temi che proporrò potranno apparire slegati tra loro e quindi privi di un nesso logico: ebbene, non affannatevi a cercare questo fil rouge con una seconda o terza lettura semplicemente perché…non c’è.
Trattandosi pertanto di una riflessione prettamente soggettiva sono costretto a partire da un prologo di natura personale.
Sono detentore di porto d’armi da oltre cinquanta anni: presi infatti la licenza di caccia con relativa autorizzazione al porto di fucile previo nulla osta paterno all’età di sedici anni.
Questo non tanto perché ardessi di passione venatoria, quanto per mantenere uno spazio di contatto con un padre altrimenti distante e poco presente.
Quindi sono sempre stato un cacciatore svogliato e distratto, insensibile al fascino del lavoro dei cani in battuta, alle loro prodezze in termini di cerca, ferma e riporto così come alla caratteristiche del volo degli uccelli tant’è che faccio ancora fatica a distinguere un piccione da una starna.
Più intenso invece l’interesse per le armi, che si è concretizzato in una discreta, ma ormai lontana negli anni, attività agonistica in tre specialità di pistola (aria compressa, grosso calibro e standard) in una di carabina (specialità olimpica 60 colpi a terra) e che mi vede tutt’ora impegnato con risultati alterni in gare di fossa olimpica.
Nel corso di oltre mezzo secolo ho cambiato un’infinità di armi passando per altrettante autorizzazioni, dal porto d’armi sportivo a quello per difesa personale che mantenni solo per alcuni anni.
Il tutto curando scrupolosamente e faticosamente gli aspetti formali e amministrativi.
Faticosamente perché il grado di digitalizzazione del mio Commissariato di riferimento era (almeno fino a pochissimi anni fa) pari a zero.
Quindi la signora di turno ogni volta recuperava dai sotterranei il mio polveroso faldone alto mezzo metro ed iniziava la spunta delle copie carbone degli ultimi 50 anni per ricostruire la situazione attuale.
Tutto ciò potrebbe essere semplificato con un software meno complesso di quello che utilizziamo per ordinare una pizza, ma non è questo lo scopo delle mie osservazioni e pertanto vado oltre.
In mezzo secolo di comportamenti irreprensibili ho dovuto anche sottostare a defatiganti procedure di rinnovo periodico del porto d’armi, con tanto di accertamento dei carichi pendenti e di visita effettuata da medico legale militare o della Polizia di Stato.
E queste rigorose procedure non vanno solo rispettate in occasione del rilascio e del rinnovo bensì anche nel “durante” perché se dovessi venire beccato un pò alticcio alla guida, in uno con la revoca della patente scatterebbe anche quella del porto d’armi.
Quando però uscendo esausto dal Commissariato mi imbatto nel solito gruppo di tossici/spacciatori che stazionano ai giardinetti in compagnia di minacciosi pitbull, quasi mai tenuti al guinzaglio qualche interrogativo mi sorge.
Il primo più banale è se questi cani siano in regola con quanto previsto dalla legge (microchip, registrazione all’anagrafe canina, vaccinazioni).
Il secondo meno banale e più sostanziale è se sia logico consentire a chiunque il possesso di un animale con queste caratteristiche che, nel contesto da me evidenziato, non assolve certo a funzioni di mera compagnia.
Tengo a precisare di non essere tra coloro che auspicano la messa al bando di razze canine considerate pericolose: ho posseduto infatti piuttosto a lungo esemplari considerati “impegnativi” (Rottweiler, Dobermann) maturando il convincimento che non esistano cani cattivi bensì cattivi padroni.
Ora non saprei dire d’acchito se quelli che vedo nei giardinetti vicino casa siano cattivi cani, ma resterei sorpreso se i loro proprietari fossero buoni padroni. Ed eccoci al nocciolo della domanda che mi pongo da uomo della strada: perché l’acquisto di un cane del genere non deve sottostare ad un iter autorizzativo che certifichi ad esempio la moralità del richiedente, per attenuare se non eliminare il rischio che utilizzi l’animale per regolare controversie con i “colleghi” tossici / spacciatori o peggio contro le Forze dell’Ordine?
Perché non è richiesto un training preliminare, qualificato e certificato che metta il proprietario in condizione di gestire un animale che potrebbe risultare problematico con le conseguenze a volte drammatiche che abbiamo appreso dalla cronaca?
Niente di tutto questo: ti piace una determinata razza perché va di moda e spesso il risultato (quando escludiamo la situazione deviante dei tossici/spacciatori) è vedere fuscelli di ragazze da 50 chili trascinate al guinzaglio da bestie poderose che pesano più di loro.
Sullo stesso filone dei dubbi da uomo della strada allargherei il raggio delle domande che mi frullano nel cervello soffermandomi su un altro tipo di eventi che hanno funestato le cronache.
È capitato, fortunatamente di rado, che qualche delinquente storpiasse o addirittura uccidesse un povero malcapitato utilizzando tecniche di combattimento a mani nude (oggi vanno di moda le MMA che hanno surclassato pugilato e full-contact).
Anche qui non mi viene in aiuto la statistica perché sono certamente più numerosi i casi di chi senza nessun addestramento specifico ha ucciso o mutilato il prossimo a bottigliate, martellate, coltellate, sassate, accettate, picconate e via discorrendo.
Né ho pregiudizi nei confronti degli sport di combattimento avendo frequentato in gioventù e da peso medio per 5 anni la storica Società Pugilistica Olimpica di Testaccio a Roma.
Ricordo però un ambiente piuttosto eterogeneo che andava dal Principe Roffredo Gaetani dell’Aquila d’Aragona Lovatelli e Giuliano Gemma (entrambi purtroppo periti prematuramente in incidenti stradali) a soggetti, diciamo così, “contigui” alla banda della Magliana.
Mi concedo una piccola digressione per ricordare il povero Roffredo che ebbe una certa notorietà allorquando sfidò a singolar tenzone Mickey Rourke, che a sua volta vantava trascorsi pugilistici.
Motivo del contendere, tanto per cambiare, una donna (Carrè Otis se non ricordo male).
L’evento ebbe una grande risonanza, ma quando si arrivò al dunque Rourke tirò indietro con una scusa e secondo me fece bene perché Roffredo era uno che menava ed aveva preso la questione maledettamente sul serio.
Concluso questo affettuoso ricordo di Roffredo, mi pongo una seconda domanda, dopo la prima in materia canina, riguardo a questo tema: perché non esiste alcun tipo di vigilanza su chi frequenta palestre in cui si praticano sport da combattimento? Perché l’iscrizione a tali strutture non è subordinata ad un certificato di buona condotta? Perché è consentito a pregiudicati per reati contro la persona di praticare queste attività?
Sembra surreale che le Forze di Polizia debbano controllare chi si registra in un albergo, ma non chi si iscrive in una palestra dove si praticano sport da combattimento, ma è così.
La terza incongruenza che evidenzierò non è inedita essendo stata oggetto di un intenso dibattito giuridico.
Riguarda il quesito se sia lecito o meno che le guardie giurate possano portare la pistola quando non siano in servizio.
La materia è piuttosto delicata e proverò a riassumere i punti salienti.
Il porto d’armi rilasciato alle guardie giurate è lo stesso che viene rilasciato al privato cittadino che ne abbia fatto richiesta dimostrando comprovate necessità per ragioni di difesa personale. L’unica differenza è la tassa annuale, ridotta per le guardie giurate.
In forza di questo aspetto la giurisprudenza, anche se non in modo univoco, ha espresso l’orientamento che trattandosi della medesima autorizzazione, se questa permette al privato cittadino di girare armato H24, parimenti deve essere consentito alla guardia giurata anche se fuori servizio.
Qui avrei qualche osservazione da fare se non in punta di diritto, almeno seguendo un minimo di buonsenso.
Il comune cittadino che faccia richiesta di un porto d’armi deve dimostrare all’autorità di Polizia di essere, per l’attività svolta o per il ruolo agito, in una oggettiva e verificabile condizione di pericolo personale.
Difficile riesce pertanto immaginare quali oggettivi rischi personali corra una guardia giurata quando sia fuori servizio, a meno che per l’attività svolta non venga fatto oggetto di minacce o di attentati alla sua persona, eventi fino ad oggi mai segnalati.
Lo status di guardia giurata altresì prevede che questa possa fare uso delle armi, ovviamente secondo criteri di proporzionalità, per difendere sé stesso o i beni mobili o immobili affidati alla sua custodia.
Questo pone una prima questione per quanti dovessero essere impropriamente adibiti, ad esempio, alla funzione di guardia del corpo, perché in questo caso potrebbe essere lecito l’uso delle armi per difendere i beni del soggetto vigilato o la vita del vigilante, ma non sarebbe legittimo utilizzare l’arma in difesa del vigilato, rientrando questo nei compiti delle Forze di Polizia.
Quindi sarebbe più logico immaginare un sistema in cui le armi fossero detenute dalla società erogante l’attività di di vigilanza, distribuite agli addetti per l’espletamento del turno di servizio per essere poi ritirate al termine dello stesso.
La realizzazione di queste quattro righe comporterebbe però un notevole impatto su logistica e costi: le armi verrebbero infatti acquistate, registrate e detenute in locali idonei dalla società che dovrebbe poi attuare un piano di distribuzione e ritiro ad ogni cambio di turno.
Quest’ultimo aspetto non sarebbe banale considerando la dispersione del personale in servizio sul territorio rispetto alla sede della società.
Molto più semplice che la guardia giurata acquisti, denunci e detenga la propria arma, se la tenga a casa, prenda servizio portandola con sé…e pazienza se poi continui a girare armato anche quando non ne avrebbe alcuna necessità.
Come ho anticipato in premessa la statistica questa volta non mi verrà in aiuto e quindi mi si potrà molto facilmente obiettare che sono pochissimi i casi di cani mordaci di spacciatori aizzati contro le Forze dell’Ordine, altrettanto esigui nel numero quelli di esperti di tecniche di combattimento che hanno ucciso qualcuno o di guardie giurate che hanno utilizzato improriamente la propria arma.
A mia volta però potrei rispondere che sono ancora più rari i casi di chi detenendo legalmente armi da oltre mezzo secolo le abbia usate per commettere crimini…eppure questa evidenza statistica non attenua il rigore amministrativo nei confronti di tale categoria di possessori, pur essendo lapalissiano che un delinquente che intenda sparare a qualcuno non chieda prima il permesso alla Questura, utilizzando poi un’arma regolarmente acquistata e denunciata a suo nome con tanto di numero di matricola.
Ma siccome la Civiltà Giuridica non si costruisce sulla statistica, qualche riflessione che vada oltre le numeriche a volte può essere utile.