Il lupo lamentava che l’agnello a valle sporcasse la sua acqua. Quando l’ovino fece capire che era impossibile vista la sua posizione successiva lungo il corso del torrente, il lupo tirò fuori la storia che sicuramente i genitori della pecora avevano tempo addietro causato analogo disagio.
La diplomazia russa (che di diplomatico ha davvero poco) ha cercato di appiccicare agli italiani lo sgradevole ruolo di responsabili delle vittime nei campi minati in territorio ucraino. L’Italia non sarebbe solo terra di pizza e mandolini, ma fucina di strumenti di morte. Un post su Facebook ha scatenato l’inferno.
Il nostro Ministro della Difesa ha subito replicato tuonando che dal 1997 l’Italia ha interrotto la produzione e la commercializzazione di ordigni esplosivi APM (anti-personell mine), aderendo alla messa al bando di quel tipo di armamento. E sempre su Facebook (moderno campo di battaglia) viene lanciata la cannonata di risposta.
Purtroppo il nostro Paese vanta tristemente importanti trascorsi industriali nel settore, perché grazie a Valsella, Tecnovar e Misar si posizionava tra i maggiori produttori ed esportatori di mine antiuomo e relativi accessori.
A soffiare nelle vele di quel business c’erano un significativo sostegno bancario, il finanziamento pubblico alla progettazione e allo sviluppo di armamenti, un regime di esportazione forse un po’ permissivo.
La vivacità italiana individuava opportunità interessanti in “destinazioni vietate” come il Sudafrica, che – sotto embargo internazionale – era raggiungibile con curiosi itinerari verso il Paraguay come quello pianificato ed attuato nel 1979 con l’imbarco di 90mila mine antiuomo VS MK2 sulla nave danese Pia Frem nel porto turistico di Talamone in provincia di Grosseto…
Nel catalogo di queste “prelibatezze” – a cavallo degli anni 80 – c’erano le mine VS-50, che – disseminabili da veicoli terrestri o elicotteri – andavano a ruba in Marocco, Gabon e Iraq. Grande successo anche per i sistemi posamine dai nomi suggestivi come “Istrice” o “Grillo”…
Le aziende italiane pigiano l’acceleratore delle attività di ricerca e sviluppo per trovare macchine di morte sempre più sofisticate, come le mine antiuomo elettroniche e ad attivazione remota (con segnali radio crittografati).
Se la Valsella sembra gelosa del proprio know-how, la Misar è particolarmente attiva nella concessione di licenze e coproduzioni all’estero, diventando un attore influente nella produzione globale di piccole mine antipersona resistenti al rilevamento. I “prodotti” della Misar finiscono sul mercato attraverso la spagnola Expal (Explosivos Alaveses), la portoghese Spel (Sociedad Portugueisa Explosivos), la greca Elviemek, la pachistana Pakistan Ordnance Factories.
Poi – a voler mutuare un’espressione che piace molto all’attuale formazione governativa – “la pacchia è finita”.
Il progressivo irrigidimento normativo sull’export di materiale bellico (la legge 185 del 1990 costituisce una pietra miliare) è coinciso con la conclusione di alcuni grandi conflitti come quello Iran-Iraq. La guerra (quella in Ucraina ne è testimonianza evidente anche per i non addetti ai lavori) è ovviamente il principale mercato per un certo tipo di industria che senza massacri non ha sbocchi commerciali. Non bastasse, è scattata la Campagna Internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo….
E allora l’imprenditoria aveva aguzzato l’ingegno per non veder falcidiati i propri bilanci. La Valsella, ad esempio, non accettando di assistere al tramonto dei profitti con le restrizioni sulle esportazioni verso l’Iraq (che avevano fruttato affari per oltre cento milioni di dollari), per dribblare certi vincoli aveva aperto una filiale a Singapore e stabilito accordi industriali con le locali Chartered Industries (CIS). La reddività del settore era tale da appassionare persino la FIAT, che nel 1984 – attraverso la sua Gilardini – avvia l’acquisizione del controllo della Valsella e della Misar…
A distanza di anni pare abbastanza difficile capire e stimare quanto know-how e capacità produttiva italiana sia stata trasferita ai Paesi in via di sviluppo prima della messa al bando. Non è neppure agevole valutare l’indiretto impatto tricolore sulla proliferazione delle mine antiuomo.
Vista la “impercettibilità olfattiva” dei profitti, le questioni di coscienza sono sempre state tenute distanti da questo contesto.
A prescindere dai bizzarri e infondati addebiti dell’ambasciatore russo, chi vuole sapere cosa abbiamo combinato può approfondire il tema sul sito ArchivioDisarmo oppure su quello del Landmine and Cluster Munition Monitor, la realtà che offre supporto documentale della International Campaign to Ban Landmines (ICBL). Ce n’è abbastanza per sentirsi in colpa per i brandelli dei tanti – magari bambini – che grazie alle nostre tecnologie sono saltati per aria o sono “solo” rimasti mutilati…