Sono passati vent’anni da quando se n’è andato. Molto autorevoli testimonianze sono state pubblicate per celebrarne il ricordo e rafforzare il rimpianto per una tipologia di italiano che è andata evaporando fino a svanire.
Non sono persona autorevole, anzi, direi che conto poco o nulla. Non posso rilasciare interviste piene di intime, significative e ponderate testimonianze. No, non posso nemmeno dire di averlo conosciuto.
Ho solo avuto a che fare con lui molte volte, o meglio, ho lavorato per lui e per le sue aziende, per molti anni. Sto parlando di Giovanni Agnelli, conosciuto ai più come l’Avvocato, anche se poi avvocato non è mai stato, visto che non ha mai sostenuto l’esame di Stato, non ha mai fatto giuramento presso qualsivoglia tribunale e non si è mai iscritto all’Albo degli avvocati.
Quindi vado a raccontare una delle volte che ho avuto a che fare con lui. Una piccola storia, vera e vissuta.
Gennaio 1984. Giovanni Minoli intervista, faccia a faccia, a “Mixer”, Gianni Agnelli. Parlano di cose serie: di Confindustria, Scalfari, Cefis; del governo Craxi, del rapporto dell’avvocato con Ugo La Malfa, Berlinguer, De Mita, dell’operato di Cesare Romiti. Nel corso dell’intervista parlano anche di cose meno serie. Chiede Minoli:
“Ecco Avvocato, parliamo di un’altra cosa, frivola.
Lei è un uomo molto amato dalle donne. Che effetto le fa questo?”
“Se è vero non può che farmi piacere” è la risposta.
“Ma l’amore per le donne cosa rappresenta nella sua vita, se ha rappresentato qualcosa di importante?”
“No, guardi, ci sono due tipi di uomini. Ci sono gli uomini che parlano di donne e uomini che parlano con le donne.
Io di donne preferisco non parlare”.
Qualche tempo dopo. Zona collinare a 13 chilometri a est di Torino. Villa Mon Plasir (non Plaisir, non è errore di francese, si chiama proprio così), secolo XVI, già dei Rossi di Montelera, allora proprietà dell’ISVOR Fiat, azienda del Gruppo dedicata all’addestramento e formazione delle maestranze di ogni ordine e grado. Denominazione ufficiale: Centro Incontri Marentino.
In corso l’incontro annuale con l’alta dirigenza del Gruppo Fiat: direttori, direttori generali, amministratori delegati. Un paio di centinaia di persone. C’ero anche io. Non perché alto dirigente, ma perché facente parte dello staff che organizzava l’evento.
A metà mattinata c’è la pausa lavori.
Grande sala. Tendaggi che velano alte finestre, generando leggera e discreta penombra. Pavimenti tirati a lucido. Vocìo di fondo. Caffè, thè, succhi di frutta. Tramezzini, bignè e piccola pasticceria nella migliore tradizione gastronomica piemontese.
Ci si saluta, si chiacchiera. Nel capannello di persone di cui faccio parte anche io si commenta l’intervista dell’Avvocato. Un collega riprende quanto da lui detto sulle donne.
Faccio notare che la risposta data è molto arguta, di certo nel suo stile, ma non ben definita. Pur avendo dichiarato che esistono due tipi di uomini, ha di fatto affermato di non fare parte di nessuno dei due. Il primo parla delle donne. Il secondo parla con le donne. Lui non ne parla proprio. Di donne.
Segue animata ed educata discussione. Rispondendo alle considerazioni di un collega, ho la pessima idea, dato il luogo e il contesto, dopo avere detto di non essere d’accordo con quanto affermato nell’intervista, di declamare, imitando la voce dell’Avvocato:
“No, guardi, ci sono tre tipi di uomini”
Ci sono gli uomini che parlano di donne e uomini che parlano con le donne.
Io…”
Mi sono reso conto che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto a metà della seconda frase. I messaggi non verbali che mi stavano mandando gli astanti erano chiari. Occhio spalancato. Leggero innalzamento di sopracciglio. Lievi, quasi impercettibili cenni di diniego fatti con il capo. Tensione nelle spalle. Uno aveva già rientrato il capo fra le scapole, preparandosi per la bastonata.
Mi sono reso conto che non c’era più nessun brusio di sottofondo. Era piombato il silenzio. Le tazzine di caffè erano rimaste a mezz’aria. Forte tensione. Avevo lo sguardo dei presenti, nessuno escluso, su di me.
Mi era del tutto chiaro che mi ero ficcato in un brutto guaio. Sapevo che c’era lui e che stava in piedi dietro di me. Sentivo il suo sguardo sulla nuca.
La cosa migliore che potessi fare era quella di lasciare il discorso a metà, sperando che la situazione potesse così risolversi. Non l’ho fatto. Saranno state le origini romane e l’antico imperativo di quella cultura per cui è meglio perdere un amico che una buona battuta. Sarà stata una leggera dose di follia, gusto della sfida, forse semplice esibizionismo, ma ho completato la frase:
“…io, le donne preferisco ascoltarle…”.
Nessuna reazione. Nessuno ha mosso un muscolo. Alles stille… come dice Papageno. Tutti aspettavano qualcosa che doveva accadere.
In questo silenzio, in questa quiete prima della tempesta, si leva forte e sicura l’inconfondibile voce dell’Avvocato. Esattamente dietro di me.
“Non male Apàro, non male”.
Sarà stata una mia impressione, ma mi è sembrato che calcasse la sua tipica “r” francese nel dire il mio cognome.”
Mi giro, lentamente.
Davanti a me, troppo vicino, c’è l’Avvocato. Accanto a lui i grandi cortigiani, chiedo scusa, notabili dell’azienda: Romiti, Mattioli, Cesare Annibaldi, Auteri. Rispettivamente Direttore generale, Direttore Finanza, Direttore relazioni industriali, Direttore del personale.
Mi guardano con aria feroce, con grande disapprovazione.
Avendo compiuto reato di lesa maestà, non mi occupo dei membri della corte, ma di Sua Maestà.
Con aria seria, molto professionale, il cuore in fuori giri, un intero allevamento di farfalle nello stomaco, chiedo all’Avvocato:
“Ringrazio, saluto e me ne vado, debitamente licenziato?”
“No, per questa volta no”, risponde, con grande, nobile calma.
Mano leggermente infilata nella tasca della giacca, orologio sul polsino. Il suo volto non tradiva emozioni. Ebbi la sensazione che il tempo si fosse fermato. In quella grande sala, riccamente decorata e affrescata, c’eravamo solo noi due. Era in atto un silenzioso dialogo, riservato. Fatto di sguardi. Non so come fosse il mio, ma il suo, inequivocabilmente, rideva.
Non poteva mostrarlo alla corte, ma si era divertito, cosa che gli capitava di rado. Aveva apprezzato. Non potevo chiedere di più.
Ho compreso ruolo e importanza del matto di re Lear. Ho leggermente piegato il capo, in un abbozzato inchino. Non tanto per rispetto della gerarchia, ma per non fare vedere a nessuno che stavo sorridendo.
Mai dare due volte nello stesso giorno validi motivi per essere messi alla porta.
L’Avvocato, inizia a muoversi, tacitamente dichiarando chiuso l’incidente. Con lui il branco di notabili di alto bordo, che continuano a guardarmi con aria di profondo disgusto. Leggo nel linguaggio non verbale di Auteri, Capo del Personale del Gruppo Fiat, che ne vorrà riparlare. In realtà non lo fece mai.
L’Avvocato lui sì, tornò sull’episodio, ma questa è un’altra delle mie storie con lui.
Gli astanti, nessuno escluso, riprendono a respirare.
Sotto il loro sguardo ammirato, con apparente serafica calma, passo sicuro e cuore in tumulto – sto per perdere i sensi – mi rifugio al bagno.
Non per rifarmi il trucco, ma per esplodere in una lunga, ricca risata.
Tanto, tanto liberatoria…