Il Governo si trovò a dover scegliere tra sostenere il Consiglio di Amministrazione dell’Istituto, chiaramente dominato da personaggi tutt’altro che affidabili ed onesti, od appoggiare il suo Direttore Generale, uomo onesto e competente ma politicamente poco incline a compromessi. Per alcuni mesi non prese posizione ma, alla fine, optò per la prima soluzione chiedendo a Notarbartolo di dimettersi. Il Consiglio di Amministrazione venne sciolto ma la maggior parte dei componenti venne confermata.
In tutto questo si inseriva l’ostilità e la disistima che Notarbartolo aveva nei confronti di Raffaele Palizzolo, già sospettato dal nobile siciliano per il suo sequestro nel 1882. Il Palizzolo venne, inoltre, sospettato di essere tra i mutuatari della truffa dei titoli N.G.I. ed additato dalla “voce pubblica” come il mandante dell’omicidio sia per i pregressi aspri contrasti con Notarbartolo, sia perché ritenuto un esponente di quella che era definita “Alta Mafia”. Il movente poteva essere individuato nella possibilità che il Notarbartolo fosse in grado rivelare gli intrighi di Palizzolo e ritornare alla guida del Banco di Sicilia ponendo fine ai notevoli imbrogli commessi con la complicità di parte del Consiglio di Amministrazione, vicino al Palizzolo.
Per i primi tre anni le indagini stagnarono per le connivenze che Palizzolo aveva sia nella Questura che nella Magistratura di Palermo.
Negli anni antecedenti al processo, Leopoldo Notarbartolo aveva raccolto elementi per le proprie tesi in merito all’omicidio del padre e si era costituito parte civile per testimoniare nel processo. Era convinto che i magistrati inquirenti palermitani volessero occultare le prove ed insabbiare la vicenda. L’Ufficiale sospettava del Procuratore Generale di Palermo. Si avvalse anche delle amicizie personali e politiche del padre. Prima il di Rudinì (1839-1908, Antonio Starabba, marchese di Rudinì, esponete della destra storica, uno dei maggiori proprietari terrieri della Sicilia, più volte Presidente del Consiglio), che glissò. Poi il Pelloux (Presidente del Consiglio dal giugno 1898 al giugno 1900) che si adoperò per trasferire a Milano il processo al fine di contenere le pressioni e le intimidazioni nei confronti dei testimoni. La testimonianza del figlio Leopoldo imbarazzò profondamente la politica della capitale. Il processo doveva essere, nei piani, un momento per dare una facciata di giustizia e sacrificare qualche ”pesce piccolo”. Palizzolo divenne motivo di imbarazzo e la richiesta del Presidente del Consiglio, il Generale Luigi Pelloux (1839-1918) di autorizzazione a procedere venne accolta dalla Camera. Venne arrestato a Palermo in casa mentre riceveva i postulanti. Sembrava finito e la mafia “agonizzante” (giudizio di alcuni commentatori) mentre un busto veniva collocato a ricordo di Notarbartolo.
Nel corso del processo iniziarono ad emergere le pressioni che avevano generato il ritardo dello stesso. Lo “scandalo” prese corpo e si amplificò. Il Ministro della Guerra, il Generale Giuseppe Mirri (1834-1907), già Commissario del Re in Sicilia, affermò che la fase istruttoria era stata condotta con “massima rilassatezza, negligenza, anzi colpevolezza” e che l’Autorità Giudiziaria “dimostrò nell’istruttoria nel processo negligenza ed imperizia a tal segno da rendersi assolutamente colpevole”. Il Ministro, Sen. Mirri, uomo di Francesco Crispi, fu costretto alle dimissioni (5 gennaio 1900) quando un giornale pubblicò una sua lettera all’Autorità Giudiziaria nella quale sollecitava il rilascio di un mafioso, capace di indirizzare e manovrare voti, affinché potesse aiutare nelle elezioni un candidato governativo.