Oggi vorrei provare ad affrontare il tema dell’esperienza come fonte di apprendimento.
Per fugare ogni dubbio declinerò subito il mio punto di vista: personalmente sono convinto che il ruolo dell’esperienza nel processo di apprendimento sia sopravvalutato.
Purtroppo non posso rivendicare l’originalità di questo assunto in quanto ben prima di me Oscar Wilde definiva l’esperienza come la penosa giustificazione dei nostri errori.
È singolare che una persona avanti negli anni rivesta in questa circostanza il ruolo di pubblica accusa nei confronti dell’esperienza, che è invece l’usbergo dietro il quale si proteggono gli anziani per continuare ad avere voce in capitolo sopperendo al venire meno delle energie fisiche e mentali.
Ma d’altro canto come si potrebbe scrivere dei limiti e dei pericoli dell’esperienza senza averne?
La mia apodittica e apparentemente divisiva affermazione iniziale sulla sopravvalutazione dell’esperienza nei percorsi di apprendimento può probabilmente suscitare molte opinioni di segno opposto, ma lo scopo di questo articolo non è raccogliere consensi bensì offrire una diversa prospettiva.
Affronterò quindi questa complessa tematica limando e circoscrivendo l’ipotesi presentata in premessa al fine di renderla un po’ meno “ruvida”.
Il mio obiettivo infatti non è disconoscere l’importanza dell’esperienza in un processo cognitivo o di apprendimento, ma ridimensionarla nel ruolo che le spetta.
Questo perché oggi esistono forme di apprendimento più sofisticate ed evolute dell’esperienza diretta.
C’è una breve storiella americana che da sola basta a rendere del tutto superfluo ciò che scriverò oggi.
Un tizio che sta attraversando il deserto di Sonora in macchina, ad un certo punto si ferma, scende dall’auto, si spoglia completamente nudo e si getta su di un cactus con le conseguenze che è facile immaginare.
Allo sceriffo giunto sul posto con i soccorsi che gli chiede perché avesse fatto una cosa così stupida risponde: “al momento non mi era sembrata una cattiva idea”.
Qui c’è il nocciolo della mia tesi: non dobbiamo provare ad attraversare a nuoto l’Oceano Atlantico per capire che sia un’impresa impossibile.
Allo stesso modo oggi per accendere una fiamma non dobbiamo ripercorrere l’esperienza dell’Homo Erectus che dalla prima scoperta del fuoco alla sua domesticazione impiegò circa 2 milioni di anni.
Siamo passati infatti da forme primordiali di apprendimento a processi più evoluti basati su competenze, conoscenze e capacità acquisite con modalità sempre meno riconducibili alla esperienza diretta dei fenomeni.
L’esperienza conserva tuttavia la sua importanza in assenza di strumenti più efficaci e resta insostituibile nelle fasi di sperimentazione.
In tutti gli altri casi ravviso nel richiamo all’esperienza la perniciosa attitudine prettamente nostrana tesa a mascherare pressapochismo e superficialità.
“Sbagliando si impara” è stato l’assolutorio motto che ha guidato la forsennata carica verso epocali sfracelli manlevando dalle responsabilità individuali.
Non è vero che si impara sbagliando: si impara studiando, approfondendo, analizzando, osservando, pianificando, valutando le variabili in gioco, prendendo decisioni e assumendosene la responsabilità.
Avendo chiari soprattutto obiettivi, finalità e conseguenze delle proprie azioni nell’immediato ed in prospettiva.
Poi si può sbagliare comunque, certo, ma riducendo moltissimo il margine di errore e soprattutto disponendo di tutti gli strumenti per correggersi senza mortificare la propria autostima.
Avremmo infatti motivazioni razionali a monte delle nostre azioni e non giustificazioni posticce a valle per tentare di spiegare a posteriori quello che non siamo riusciti a valutare a priori.
Oggi invece sempre più assistiamo a disastri annunciati, i cui esiti erano chiaramente presenti e prevedibili ben prima che si evidenziassero i danni.
E quando all’assaltatore di cactus di turno rivolgiamo la più banale delle domande, quella che i bambini imparano a formulare già a quattro anni di età e cioè “perché l’hai fatto? ” si rischia di sentirsi rispondere: “così…a pelle…di pancia mi è venuto di farlo”.
Ora prendere decisioni affidandosi alla pelle, che non a caso è la parte più superficiale del nostro corpo, o agli intestini che certamente assolvono a funzioni importanti, ma meno nobili di quelle che ad esempio potrebbe esercitare un cervello, a mio avviso offre scarsissime probabilità di successo.
Sarebbe singolare infatti immaginare di conseguire risultati positivi ricorrendo ad una pozione magica composta, per restare metaforicamente nel solco del precedente paragrafo, da superficialità ed escrementi.
Ricorrere a questo malsano concetto di “esperienza sul campo” presenta almeno due grossi e contrapposti limiti.
Il primo è insito nell’affrontare un qualsiasi evento riferendosi ad una pregressa esperienza positiva perché in tal caso si può incorrere in eccessiva sicurezza sottostimando il quadro complessivo.
Al contrario si può incorrere in un secondo limite basandosi su di una precedente esperienza negativa, perché questa potrebbe avere un effetto condizionante se non addirittura paralizzante nella fredda valutazione dei parametri oggettivi.
L’esperienza può avere un significato quando esprime un track record in grado di fornirci un’approssimazione, seppur a solo titolo di inferenza statistica, dei risultati che potremmo ottenere, o quando può aiutarci a gestire restando calmi un’emergenza che abbiamo già affrontato più volte in passato.
Rappresenta infine un valore nel momento in cui diventa un serbatoio delle competenze acquisite ed esercitate attraverso una lunga pratica addestrativa.
Ma non mi spingerei molto oltre questi ambiti, tracciando un ferreo limite tra l’acquisire esperienza ed il fare semplicemente minchiate.
Ora chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui collocherà queste mie considerazioni tra quelle di un ex manager di lungo corso, anche un po’ bollito, che le ha espresse riferendosi principalmente ai suoi vissuti aziendali.
Ebbene….ni!
Weberaniamente i rapporti all’interno delle organizzazioni sono impersonali.
Ciò si traduce in policy, normative, regolamenti, processi e procedure finalizzate a limitare ed incanalare il ricorso alle esperienze individuali che in quanto tali non assicurerebbero la necessaria standardizzazione dei comportamenti.
Certamente anche in ambito aziendale c’è sempre qualcuno che balza nudo su di un cactus, ma le funzioni di controllo, l’Audit in particolare, hanno scarsissima propensione a valutare simpaticamente questo genere di iniziative.
Molto più generalizzata e diffusa invece la situazione nella società, sia a livello di gruppi che individuale.
Si assiste sempre più frequentemente infatti all’adozione di comportamenti, all’avvio di relazioni, all’assunzione di decisioni in cui i prodromi del fallimento sono chiaramente visibili e presenti senza che ci sia la necessità di saltare nudi sul cactus, eppure…
Ma niente paura: gli assolutori mantra “fare esperienza” e “sbagliando si impara” stendono un pietoso velo sulle rovine fumanti che restano nel tessuto sociale e nei rapporti interpersonali.
Sotto al pietoso velo continuiamo imperterriti a fare minchiate…pardon, esperienza