La principale conditio necessaria ad uno Stato per raggiungere situazioni ottimali di crescita economica e di governabilità sociale – ad oggi – è innegabilmente la smart economy, di cui l’Artificial Intelligence (AI) rappresenta lo snodo da cui poi si diramano ulteriori scienze tecnologiche, anch’esse molto importanti.
Tale tecnologia avanzata – con annessa necessaria produzione di chip – essendo l’arma più affilata dello Stato moderno, ha innescato un braccio di ferro che Washington e Pechino portano avanti oramai da anni.
Se la Repubblica Popolare Cinese considera l’AI un terreno di competizione con gli Stati Uniti e i suoi alleati, questi, dal canto loro, vedono la modernizzazione della Cina in tale settore come una minaccia alla conservazione della loro supremazia geopolitica.
Tra le altre, la reale minaccia temuta da ambedue le Superpotenze è costituita da operazioni militari assistite dall’intelligenza artificiale.
A tal proposito Xi Jinping ha ribadito a più riprese – nell’ambito dell’assertivo risorgimento della Nazione cinese – l’importanza di tale settore, stimando che entro il 2030 potrebbe apportare un aumento di PIL e tasso di occupazione – rispettivamente 26% e 12% – nonché incrementare sicurezza nazionale e competitività internazionale.
Oltre al 70% delle quote mondiali del mercato dei velivoli senza pilota, la RPC detiene la più grande industria di droni civili al mondo.
Circa 1.000 miliardi di yuan sono stati stanziati per implementare il settore, con una crescita di politiche fiscali preferenziali e finanziamenti a imprese, atte alla produzione ed all’assemblaggio dei chip.
Partendo dall’assunto che tali chip avanzati per computer sono la chiave per lo sviluppo delle industrie di semiconduttori di fascia alta – a loro volta cruciali per i futuri progressi dell’intelligenza artificiale – si possono ben comprendere i timori statunitensi in merito all’espansione cinese.
Vista la crescente preoccupazione dell’amministrazione Biden per la modernizzazione bellica cinese, il Dipartimento del Commercio Americano ha imposto sanzioni sulle esportazioni di semiconduttori e apparecchiature necessarie alla loro produzione, motivo per cui la RPC ha avviato una controversia presso l’OMC contro tali misure di controllo.
Nel 2022 Washington ha inoltre fatto pressione su Olanda, Corea del Sud, Taiwan e Giappone affinché vietassero l’export di chip di ultima generazione verso la Cina, pur andando contro l’interesse nazionale, sottraendo miliardi al business delle aziende americane che producono strumenti di software per l’industria di semiconduttori.
L’incorporazione di software e sensori di intelligenza artificiale nei nuovi sistemi d’arma hanno indotto alla progettazione di nuovi modelli di combattimento.
La corsa all’intelligenza artificiale somiglia ogni minuto di più alla corsa al nucleare, con Pechino che vuole stare al passo di Washington, nonostante la legislazione molto severa e restrittiva del governo cinese sulla censura online.
Liberi da populismi e futili allarmismi, possiamo leggere, studiare e riflettere: ogni grande guerra che nella storia ha rivoluzionato l’assetto geopolitico mondiale è stata preceduta da una rivoluzione in campo tecnico-industriale.
Tralasciando il solito spauracchio della bomba atomica, bisogna analizzare concretamente il contesto in cui giorno dopo giorno ci stiamo addentrando: uno scenario che si compone dell’intersezione di un ambiente pressoché vergine, del cyberspazio e dello spazio, con l’escalation di innovativi strumenti di guerra non convenzionali, basati sull’AI: droni ancor più sofisticati, riconoscimento facciale, crowd analysis, o armi autonome – fortemente amorali – concedono alle macchine controllo e decisioni di vita e di morte.