Cominciò la Pausini, per un colpo di vento sul palco: gli applausi si trasformarono in ovazione.
Poi venne Belèn: la farfallina inguinale confermò l’inventiva dello staff e il coraggio di osare in pubblico quanto riservabile a intimità privata, per quanto replicabile. Varcato il limite e esibito il seno col nude look – uno degli autori fu a cena con un pervasivo collega con accompagnatrice che poteva permettersi una maglia di corda a larghe maglie da cui fuoriuscivano areola e capezzolo, peraltro meritevoli (grazie Lucio!) – restava da sdoganare il pube in pubblico, non sui set a luci rosse o su Playboy. O sul palcoscenico: compiuti i diciott’anni, anni e anni fa capitava che il genitore accompagnasse il giovane maschio al Lido a Parigi. Le 12 Bluebell Girls si calavano da 12 funi, nello spot dei padelloni da 5000 Watt, velate d’azzurro a seno nudo: rigorosamente piccolo, sodo e statuario, a coppa di campagne: come calare Paolina Bonaparte Borghese sulla dormeuse. A fine primo tempo, rientro rapido in albergo, per le doverose operazioni maschili.
A spingere più avanti (cioè: in basso) il limite provvidero le “amiche della pelle” femminile, le estetiste, adottando eponimi geografici (alla francese, etc.) per la modellatura o rasatura dell’apparato pilifero del monte di Venere, carattere sessuale secondario: opportunità per lunghe sessioni analitiche in Sex and the City. Carattere sessuale con diverse valenze: nella Trilogia della Fondazione, Asimov fa scendere Lucky Skywalker su un pianeta di glabri. Non solo come il viso provocatore di Mina e Patti Pravo, ma calvi e depilati: ci stiamo arrivando!
Ed ora la sosia di Belèn, nello spettacolo Ciao Darwin di Bonolis, mostra qualcosa in più: lo sguardo è malizioso, c’è aperta provocazione. Tempi lontani quelli della richiesta prima di Napoleone Bonaparte, impegnato nella campagna d’Egitto, alla moglie Joséphine quindici giorni prima della sua partenza “Non lavarti, arrivo!” e poi di Sua Maestà, il Padre della Patria, alla Béla Rosìn: “Arrivo dopodomani, non lavarti le ascelle”. Altri gusti di cacciatori, altri afrori!
E, accompagnata da uno scostumato cavaliere senza calzini, si presenta invece oggi al ricevimento, timida e con gli occhi bassi, la modella che ha dimenticato di indossare la farfallina: ahimè, praticamente nuda.
Ma che cosa significa il simbolo della farfalla? Lepidotteri iconici per le quattro ali/labbra (honny soit qui mal y pense!, sia svergognato colui che pensa male!) come per la già citata Giarrettiera (vedi Giano news, XXX), ma i tempi avanzano e anche il simbolo sale come nella canzone di Cochi e Renato, L’oselìn de la comàre, la farfalla identifica la rinascita, la trasformazione, la speranza, il coraggio, la bellezza ma anche l’inconsistenza della felicità. Vivono in media da poche ore a un mese, alcune compiono migrazioni di migliaia di chilometri. Poche, davvero poche, molto fortunate, si depositano sull’inguine ove vengono iconicizzate.
Come altri tatuaggi simili, su altre rotondità, hanno un sereno richiamo alla dolcezza: Stefanie del Principato, al lepidottero ha preferito due mammiferi marini che porta con eleganza e pudicizia sulla spalla sinistra, all’acromion[1]. Non è un segreto. Esalta senza offesa il decolleté d’inverno e il bikini d’estate.
Inoltre, in questo frangente, è memento ecologista: in Europa è in atto un declino numerico di specie e di individui di farfalle, causato soprattutto dall’inquinamento e dal consumo di suolo con conseguente perdita di habitat[2].
Curiosamente invece, l’esaltazione sessuale della farfalla-simbolo si associa ad esplosione di esplorazione, curiosità e pratica di omosessualità, con riduzione rilevata di quantità e vitalità dello sperma dei maschi fertili: una evoluzione verso l’endogamia progettata a distruzione della Sodoma contemporanea? Una punizione della Ghe-Meter per l’offesa antropica al pianeta? Dovremmo proporre, per tutela del genere fornito di appendice, l’uso sociale della koteka[3]? Chi per primo si farà fotografare da Fabrizio Corona, presentandosi a San Remo o a Castrocaro o alla Sagra della Pizzica, tutelato dal protettore, la cui foggia e dimensione fungono anche da primitivo “marcatore sociale”, indicando il rango del portatore? Wikipedia fa notare che la koteka non indossata viene talvolta utilizzata anche come semplice contenitore, ad esempio per il tabacco. Il che, tutto sommato, fa anche un po’ schifo!
Peraltro, anche la cucurbitacea (zucca) ha una sua farfallina preferita, un lepidottero giallo, utile per l’impollinazione:
Speriamo di non trovarla nella farina coi grilli e i bacherozzi: aspettiamo una legge europea che protegga il lepidottero, a tutela delle possibili future mode virili.
Sono lontani i tempi in cui Kirk Douglas si presentò alla festa nudo, con abbondante ketchup sul fondoschiena e dichiarò di essersi mascherato da hamburger: un brivido per le gentili astanti, e non per lo svincolo dalla dieta mediterranea.
Dunque, dovremo adeguarci?
Pier Enrico Gallenga & Massimo di Muzio
[1] La parte della scapola che costituisce la parte superiore e permette il collegamento con la clavicola.
[2] Warren et al., The decline of butterflies in Europe: Problems, significance, and possible solutions, 2021, https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33431566/ ).
[3] La koteka (nota anche come astuccio penico o coprifallo) è un indumento, ottenuto essiccando e svuotando una zucca o zucchina perlopiù appartenente alla specie Lagenaria siceraria di forma adatta o appositamente adattata, in cui viene inserito il pene, celandolo così alla vista (Wikipedia). L’uso è attestato in diversi gruppi etnici, viene indossata tenuta eretta da un filo legato alla cintura. A seconda della necessità (caccia, danza, occasioni mondane, etc.) l’astuccio penico assume forme e dimensioni diverse.