Due sono le certezze che ci sono date dalla vita, definita come malattia endemica, trasmessa per via sessuale, dall’esito comunque fatale: esiste un tempo per nascere e uno per morire. Due certezze il cui mistero è tale da richiedere, per essere sopportato, riti e cerimonie.
Nel recente passato erano ancora in auge. Quando nasceva una bimba o bimbo si attaccava un fiocco rosa o azzurro alla porta di casa, al portone, al cancello. Magari con il nome sopra. Non più, non nelle grandi città d’Italia.
Una volta quando si moriva c’erano i funerali in pompa magna. Campane a morto. Carrozze trainate da cavalli. Si abbassavano le saracinesche dei negozi. Partecipazione sentita di chi aveva conosciuto la buonanima.
Non più, a meno che il defunto non sia un pezzo grosso della mala.
Una volta si moriva in casa. Vero che quando si muore, si muore soli, ma se c’è il calore della propria famiglia intorno, si muore meglio. Vive anche meglio chi rimane. La solitudine amplifica l’angoscia del lutto.
Poi, il distacco, per chi rimaneva, era graduale. C’era tempo per salutare, gestire il dolore, elaborare il lutto, ma non da soli. Si potevano condividere i sentimenti, i ricordi, le storie di una vita.
Oggi non più.
La morte non è più un mistero, ma una grande scocciatura. Da risolvere in modo rapido. Non facendosi coinvolgere troppo. Si chiamano gli opportuni addetti, si pagano, pensano a tutto loro. Rapida cerimonia in chiesa per abitudine più che per fede. Bara oppure urna. Loculo in cimitero. Fine della storia? No, la storia non finisce. Perché non se n’è parlato abbastanza. Della morte occorre parlare.
Magari sorseggiando un buon caffè, mangiando un dolcetto, seduti comodi in un caffè discreto ed elegante. Un Death Cafe, un Café mortel, un Caffè della morte.
Una dozzina di persone che non si conoscono si incontrano per bere qualcosa insieme e parlare della morte, per un paio di ore. Uno racconta dei genitori che hanno un Alzheimer terminale e di come vorrebbe che morissero. Una bella signora interviene una sola volta per dire: “Ho quarant’anni, sto morendo di cancro e i miei tre figli mi guardano come fossi già morta”. C’è il maschio cinquantenne, atletico, brizzolato, che condivide con gli altri il dolore, mai risolto, di un padre salutato in aeroporto, morto in vacanza e il rimpianto di non avergli detto tante cose che avrebbe voluto dirgli.
La morte è un argomento tabù. Non se ne parla. Se disgraziatamente dovesse accadere di parlarne, ci si difende con battute più o meno sarcastiche, si ricorre ad amuleti di varia foggia ed efficacia, per non parlare delle semplici corna e toccatine più o meno discrete e mai eleganti.
Partendo da queste semplici osservazioni Bernard Crettaz, sociologo ed etnologo svizzero, ebbe l’idea dei Cafés mortel, incontri informali dove non si giudica, dove non entra la religione, dove l’unico argomento di conversazione è “la fatal quiete”.
Il primo incontro avvenne nel 2004 nei locali del Restaurant du Théâtre du Passage, nella cittadina svizzera di Neuchâtel. Il passa parola fu immediato. Altri incontri seguirono. Nel 2010 Crettaz ne organizza uno a Parigi. Caso vuole che partecipi un giornalista dell’Independent che racconta l’evento.
Jon Underwood, legge l’articolo, ne trae ispirazione e organizza la sua versione di Death Cafe a casa sua, ad Hackney, Regno Unito. Poi apre il sito web deathcafe.com e condivide le regole del gioco, ovvero come organizzare e gestire un Death Cafe, debitamente citando Crettaz come originatore dell’idea.
La morte non ha confini: negli ultimi tre anni ci sono stati più di 1400 Death Cafe in 26 paesi del mondo.
Il 7 maggio scorso il primo è stato inaugurato a Torino, iniziativa promossa dall’Ordine degli psicologi del Piemonte, con l’intento di contribuire al benessere interiore delle persone. Il modo migliore per comprendere la morte è parlarne.
Un caffè della morte è dunque un incontro pubblico, aperto a tutti, con un numero limitato di persone, privo di qualsiasi scopo di lucro, dove i partecipanti, mentre consumano cibo e bevande in un bar o ristorante o simile, parlano liberamente, coordinati da un facilitatore, della morte e dintorni.
Si siede intorno a un tavolo e si parla di dolore, modi belli e brutti di morire, esperienze di quasi-morte, fede, spirito, anima.
Si parla di aspetti pratici: ultime volontà, funerali, assistenza terminale, morte assistita.
Nessuno si scandalizza se si afferma di volere una massiccia dose di morfina per chiudere l’ombrello, quando ci si rende conto di non ricordarsi più il proprio nome.
Ogni Death Cafe ha la sua propria atmosfera, data dai partecipanti, sempre diversi, ma tutti gli eventi condividono un senso di energia positiva, il piacere di potere parlare in modo libero e onesto della morte.
Elisabetta Lucchi ne ha organizzati molti di Death Cafe nella sua città, Verona.
Iniziò a farlo a causa della malattia terminale della Madre, del lutto che ne seguì, insieme alla difficoltà di parlarne con i fratelli. Erano cinque in tutto, con problemi di comunicazione. La ricerca di una strada per aprire una conversazione per esplorare sensazioni, percezioni, emozioni l’ha portata al Caffè della morte.
Parlando con lei, ha tenuto a sottolineare l’importanza di attenersi al format definito da Jon Underwood, soprattutto al fatto che si basa sul volontariato, nessun lucro. Attenti ai cicli di incontri a pagamento. Sono altra cosa.
Non ci sono esperti, non c’è un’agenda, nessun giudizio, nessun consiglio.
Sono occasioni per riflettere sulla vita, sulle proprie priorità, su come vivere pienamente.
C’è stato chi, mi ha raccontato Elisabetta, a conclusione dell’esercizio ha deciso di avere un figlio. Eros e thanatos sempre inseparabili.
Si guarda alla fine per non lasciare conti in sospeso, per capire cosa non si vuole rimpiangere, quale qualità si vuole sviluppare, con chi o cosa riconciliarsi. Serve a cambiare prospettiva mettendosi in un punto di vista diverso da quello solito, unico modo per capire quale poi sia il punto di vista solito.
Non sono gruppi di supporto, bensì eventi dove è possibile riflettere e apprendere cosa sia il ciclo della vita e la sua conclusione.
Condividere paure, pensieri, sentimenti, stress. Indagare e parlare della sofferenza fisica, psicologica ed esistenziale connessa al fine vita che per molti sarà un lento declino, una graduale perdita di facoltà, la dissoluzione di sé stessi.
I dati del Global Action Plan 2017-2025 dell’OMS indicano che nel 2015 la demenza ha colpito 47 milioni di persone in tutto il mondo, cifra che si prevede aumenterà a 75 milioni entro il 2030 e 132 milioni entro il 2050, con circa 10 milioni di nuovi casi all’anno (uno ogni tre secondi). La stima dei costi supera i 1000 miliardi di dollari all’anno, con un incremento progressivo e una continua sfida per i servizi sanitari.
Un secolo fa, prima dell’invenzione della penicillina, ci si poteva aspettare di morire in un paio di settimane a causa di una qualche malattia infettiva. Oggi, diagnosticata una malattia, si vive ancora, bene, per 10 – 15 anni.
Cosa preferite? Vivere sapendo di essere malati o morire pensando di essere sani? A me piacerebbe morire nel sonno, senza accorgermene, senza dare fastidio a nessuno, dopo avere passato almeno una ventina d’anni da pensionato, avere giocato con le mie nipotine nel pomeriggio e cenato bene con il mio amore gustando una buona bottiglia di vino.
Molto probabilmente non accadrà. Spero mi sia consentito di morire almeno con dignità. Non ne parlo con i miei figli, non vogliono o non possono ascoltare. Ho fatto lo stesso con il mio di padre, con mia madre, con le persone a cui ho voluto bene. Sbagliando.
Dobbiamo imparare ad avere a che fare con la morte. Come individui e come società. Una volta la religione ci dava le regole e gli strumenti per capirla, accettarla. Oggi dobbiamo trovare nuove strategie, anche perché a breve si morirà più che nel passato. Nel 2019 più di un quinto (20,3%) della popolazione dell’UE-27 era composto da persone di età pari o superiore ai 65 anni. Secondo le proiezioni la percentuale delle persone di 80 anni e più nella popolazione dell’UE-27 sarà 2,5 volte superiore nel 2100 rispetto al 2019, passando dal 5,8 per cento al 14,6 per cento.
Viviamo in una società dell’eterna giovinezza, dell’immortalità. Si vuole essere sempre presenti, attivi, efficienti. Così facendo ci si estranea dalle cose importanti della vita, non si accetta la propria vulnerabilità, perché la fine c’è. Sempre.
Non sappiamo quando, il che ci porta a sprecare tempo, senza renderci conto che è l’unica risorsa certamente limitata, non rinnovabile, comunque non acquistabile.
Il che porta al rifiuto della propria agentività, la capacità di esercitare il libero arbitrio per progettare il proprio futuro.
Ai Caffè della morte partecipano anche gli anagraficamente giovani, in cerca di modi per mettere a fuoco e formulare i problemi per trovarne poi le soluzioni che formano il loro progetto di vita.
Già, nulla meglio della morte per apprezzare la vita.
All’età di 78 anni Bernard Crettaz decise di non tenere più sessioni di Cafè mortel. Gli venne chiesto perché:
“Dopo avere sentito parlare dagli altri così tanto della morte, non ho più pensato alla mia. Quando ero giovane e cattolico praticante, ci facevano leggere un libro risalente al medioevo, “L’Imitazione di Cristo”. In questo testo c’era una frase terribile: “Vivi ogni istante della tua vita come se fosse l’ultimo, perché se vivi in stato di peccato, andrai all’inferno”. Sono stato educato in questa religione, un orrore. Però questa immagine è rimasta impressa nella mia memoria.
Cercai le origini del testo. Sono greche. Trovai la versione originale che recita: “Vivi ogni istante della tua vita come se fosse l’ultimo. Realizza al massimo il tuo essere”.
Nell’accomiatarsi aggiunse:
“Se Bernard Crettaz muore rimbecillito, o suicida, o in ospedale, non importa.
Se mettete tutta l’intensità di voi stessi in quel momento, allora vivete”.
Se mettiamo tutta l’intensità di noi stessi in ogni momento, allora si vive e la morte non fa più paura.
Parliamone.