Sempre più frequentemente le cronache citano il bullismo come ” fenomeno emergente”. Mi sono soffermato su questa definizione condividendola solo in parte.
Credo infatti che il bullismo sia sempre esistito e senza andare troppo indietro nel tempo basta citare il libro Cuore (e siamo nel 1896) vero testo di formazione almeno per la mia generazione, per ravvisare nel personaggio di Franti tutti i tratti distintivi del bullo odierno.
Malvagio, rissoso, picchia con cattiveria soprattutto i più deboli restando però vigliaccamente a distanza di sicurezza dal gigante buono Garrone, non rispetta l’autorità, odia la scuola, i compagni ed il maestro.
Andando ancora più indietro nel tempo scopriamo che il termine “bullo” era già in uso nel Rinascimento e lo troviamo in un’opera di Tommaso Garzoni pubblicata a Venezia nel 1585.
L’autore infatti indicava con questa parola “bravazzi, spadaccini e sgherri di piazza”.
Uno studio dell’Università di Catania mi viene in aiuto con qualche statistica che può facilitare l’inquadramento del fenomeno.
Apprendiamo infatti che questo comportamento deviante è oggi più diffuso tra i maschi rispetto alle femmine (53% vs 38%) ma che le femmine presentano una quantità di disturbi superiore a quella dei maschi (32% vs 19%) e sono più orientate a creare disagi psicologici, ostracismo ed emarginazione, mentre i maschi ricorrono maggiormente ad attacchi fisici ed offese dirette.
Infine il fenomeno va ben oltre la semplice risonanza da bolla mediatica perché secondo il Censis ne risulterebbe immune solo il 50% delle classi scolastiche.
Non volendomi limitare ad un copia/incolla della pur interessante indagine, provo a formulare qualche considerazione personale.
Partirò dall’autorevole supporto che l’analisi dell’Università di Catania offre al mio incipit e cioè che il bullismo non sia una manifestazione deviante precipua dei nostri giorni, per arrivare ad evidenziare quali siano le differenze che la possano caratterizzare come “emergente” rispetto al passato.
Intanto ritengo che se il bullismo attuale almeno nella sua espressione più “ortodossa” ricalchi sostanzialmente quello del passato (discorso a parte infatti è il cyberbullismo, questo sì prodotto esclusivo dei nostri tempi) del tutto diverse siano le conseguenze e le ricadute sul sociale.
Una volta infatti il bullismo (praticato o subito) veniva a torto o a ragione considerato un elemento del processo di crescita e di maturazione mentre nell’era post moderna ben altro rilievo riveste il tema dell’aggressività adolescenziale.
Da qui inizio ad attingere al mio vissuto personale.
Intanto allora c’era una certa gradualità nell’entrare in contatto con la realtà del bullismo, il che dava modo e tempo di sviluppare ed affinare strategie di contenimento.
Iniziavi con il piccolo bastardo che incontravi alle elementari, poi passavi ai bastardi più grandi e ripetenti delle medie (per quanto mi riguarda i più pericolosi in assoluto) e quando arrivavi al liceo ormai ti eri fatto le ossa e o eri diventato un bastardo a tua volta o avevi ormai una certa pratica che ti faceva vivere la cosa senza particolare apprensione.
Si stava tantissimo tempo in strada e questo ti metteva a contatto spesso bruscamente con mondi totalmente diversi da quello di appartenenza.
Anche qui la gradualità prevedeva che si partisse dal confronto con i più grandi che regolarmente ti fregavano il pallone occupando manu militari il campetto dove stavi giocando o cacciandoti dal flipper o biliardino nel quale avevi già inserito la moneta per arrivare in alcuni casi ad incrociare veri delinquenti usciti dal Gabelli (per i non romani all’epoca era il carcere minorile di Porta Portese) che nei loro raid cercavano solo il pretesto per attaccare briga.
Noi del cosiddetto ceto medio eravamo quelli messi peggio perché non potevamo né beneficiare dei contesti protettivi dei quartieri “alti” né contare sul supporto del “branco”, assicurato invece nelle zone più popolari.
A volte cercavamo di evitare, altre “abbozzavamo”, a volte le davamo, molto più frequentemente le prendevamo.
Nessuno veniva ucciso (almeno di quelli che conoscevo io) nessuno si suicidava per la frustrazione di aver incrociato una volta di troppo la pattuglia di teppisti, nessuno avrebbe comunque mai pensato, nonostante il concreto rischio di brutti incontri, che restare a casa a fare i compiti sarebbe stato preferibile allo scendere in strada.
Ci si guadagnava un po’ a fatica uno spazietto in questo turbolento contesto affinando le strategie in base alle proprie caratteristiche e tutto sommato si andava avanti abbastanza tranquillamente.
Intimamente infatti consideravamo il bullo di turno un fastidio incidentale e momentaneo del quale ci saremmo vendicati nel medio/lungo termine diventando qualcosa di meglio di quello che sarebbe diventato lui, destinato nella stragrande maggioranza dei casi e salvo improbabili ravvedimenti, a restare un perdente.
Ci posizionavamo quindi senza troppi affanni in una piramide piuttosto ordinata, anche perché gli scossoni e gli scontri apicali stile Ettore ed Achille erano rarissimi.
Infatti i più temibili “bravazzi” ossequiosi del saggio detto romano ” ce sta sempre un trucido più trucido che te trucida” evitavano accuratamente i rischiosissimi confronti diretti, che in caso di sconfitta avrebbero danneggiato oltre all’incolumità personale, anche la loro immagine in modo tale da pregiudicare la permanenza al vertice della piramide, da dove senza troppi affanni potevano invece vessare soggetti meno pericolosi.
Il citato detto romano trovò puntuale conferma quando il più delinquente di tutti, trucidissimo soggetto pluripregiudicato, apparentemente incontrastato ed invincibile, concluse precocemente la sua carriera balorda incappando in una revolverata calibro 38 tiratagli da un portavalori durante una rapina…dimostrando così che prima o poi il cerchio si chiude.
Questo quadro turbolento si attenuava per chi arrivava al liceo, grazie all’ ambiente un po’ più selezionato rispetto alla scuola dell’obbligo e dove, con qualche immancabile eccezione, si andava per studiare.
Inoltre, almeno nel mio caso, le classi contrariamente alle medie erano “miste” il che implicava la ancorché remota possibilità di incontri ravvicinati di terzo tipo con questi meravigliosi e misteriosi esseri che si affacciavano per la prima volta nella nostra vita.
L’impatto fu dirompente e fece istantaneamente crollare l’attrattiva della scazzottata o della sassaiola con i “grattacielini” (1) a favore di altre estenuanti attività per lo più senza successo finalizzate a suscitare una qualche attenzione in quella incomprensibile ed irraggiungibile altra metà della classe.
Molti si arresero e tornarono alle scazzottate convincendosi che in fondo il rapporto con i bulli era se non altro più trasparente e forse meno pericoloso di quello che inutilmente tentavamo di stabilire con le nostre compagne di scuola.
Questa pausa scherzosa, ma non troppo, per arrivare una prima significativa differenza rispetto ai giorni nostri: l’elemento femminile, che contribuiva in modo potente a disinnescare o almeno ad attenuare l’eventuale aggressività latente.
Il bullismo fra le ragazze infatti era praticamente assente.
Le donne non si menavano tra loro né tantomeno aggredivano i maschi.
Inoltre se capitava che ci menassimo tra noi, loro non provavano ammirazione per i protagonisti, tutt’altro…si spaventavano moltissimo e si arrabbiavano pure, temendo che la cosa arrivasse alle orecchie dei genitori con il conseguente rischio di limitazioni della loro già ridottissima libertà di movimento.
Nessuno fotografava e diffondeva questi accadimenti, non solo perché non esistevano i mezzi odierni, ma soprattutto perché sapevamo benissimo che si trattava di comportamenti censurabili che SICURAMENTE avrebbero comportato conseguenze negative nel cosiddetto peer group, sia disciplinari sia (e queste erano le più temute) in ambito familiare.
Quando poi si arrivava al servizio militare, il problema poteva ripresentarsi sotto forma di “nonnismo”, ma che sostanzialmente veniva visto come una derivata prima del bullismo dell’adolescenza con una connotazione più goliardica che intimidatoria.
Era un po’ tornare da adulti a fare forse per l’ultima volta le stupidaggini che facevamo da ragazzini: anche qui qualcuno esagerava un po’, ma la variabile tempo aiutava molto: la piramide infatti era molto più dinamica perché i nonni di lì a poco se ne sarebbero andati, saremmo diventati nonni noi ed il problema si sarebbe risolto da solo.
Tutto questo per dire che si cresceva in un continuo training che ti metteva in condizione di affrontare queste situazioni senza grossi contraccolpi psicologici, soprattutto perché non si era mai soli.
Se subivi una prepotenza la subivi insieme ad altri, se le prendevi le prendevi insieme ad altri, se sotto le armi ti imbattevi nel nonnismo questo colpiva non solo te, ma tutto il tuo corso: non vivevi pertanto la frustrazione dell’isolamento perché eri sempre in compagnia di altri che stavano come e peggio di te.
Oggi invece la vittima di bullismo si trova a fronteggiare questa realtà di colpo, impreparata e da sola, vivendo perciò una condizione di isolamento e di distanziamento sociale tale da minare la tenuta psicologica dei soggetti più sensibili con conseguenze spesso drammatiche.
E questa la ritengo una seconda decisiva differenza rispetto al passato.
Allargando la prospettiva al contesto, leggo di un ragazzino che ha tirato un pugno in un occhio ad una insegnante beccandosi una sospensione di 15 giorni.
La scuola però ha tenuto a precisare che il provvedimento non deve intendersi punitivo, perché ferma è la volontà dell’istituto di supportare il ragazzo e la sua famiglia.
Qui i nodi vengono al pettine ed iniziano ad affiorare le peculiarità che possono in effetti connotare queste manifestazioni come “emergenti”.
Controllo sociale e stigma erano una volta fortissimi nei confronti dei “bravazzi” che comunque mai e poi mai avrebbero pensato non dico di aggredire un’insegnante, ma anche semplicemente di rispondere sgarbatamente.
Chi lo avesse fatto sapeva comunque di incorrere non solo nella scontata reazione dell’istituzione, ma anche e soprattutto in quella sociale, a partire della famiglia.
Personalmente ho visto espellere dalla scuola soggetti che avevano commesso atti molto meno gravi del colpire un’insegnante, per di più donna.
E nel comminare il provvedimento non vi era titubanza né tentativi di addolcirlo presentando con l’altra mano il “supporto psicologico”, perché non era questo il compito della scuola: la scuola istruiva e la famiglia educava, punto.
Avevi sbagliato e pagavi, non c’era appello e meno che mai ti potevi aspettare una difesa da parte della famiglia. Ma questo episodio è già stato surclassato da uno ancora più grave che ha visto un sedicenne accoltellare la professoressa di italiano.
Sarebbe già allarmante se si trattasse di fatti isolati, ma spulciando le statistiche emerge che le violenze contro docenti sono state 32 dall’inizio dell’anno, più di una a settimana.
A fronte di un fenomeno così inquietante abbiamo un contraltare di “difensori mononeuronali” (definizione non mia, ma mutuata da Paolo Crepet) che si affannano ad individuare le cause recondite di questi comportamenti inaccettabili, le attenuanti, le giustificazioni, dimenticando che la Scuola non deve essere una psicoterapia di massa.
E in un contesto in cui non ci si fa scrupolo di aggredire un insegnante vogliamo ancora discettare di bullismo, di qualche teppistello che fa i dispettucci e magari non frega più la merenda o il pallone, ma lo smartphone ultimo modello?
Ministro dell’Istruzione, se ci sei batti un colpo!
Ed ecco il colpo, forte e chiaro: il Ministro dell’Istruzione (e del Merito, sarebbe interessante capire quale) ha rassicurato gli studenti annunciando che non è il caso di preoccuparsi per l’esame di maturità, perché si tratterà di una semplice chiacchierata.
Bene! Così si fa! Una preoccupazione in meno…ora sì che siamo tutti più sereni
(1) con il termine “grattacielini” venivano indicati nel mio quartiere gli abitanti delle case popolari (i “grattacieli, appunto) di Via Donna Olimpia, che ispirarono l’indimenticabile romanzo di Pasolini Ragazzi di Vita.