Così cantava negli anni ’60 Caterina Caselli, casco d’oro nata in provincia di Modena. Ma è di un’altra cantante emiliana l’ispirazione che ci viene per quanto cercheremo di argomentare qui di seguito. Cavriago (RE) ha dato i natali a Orietta Berti e questo, di per sé, basterebbe a consegnarla alla storia e alla cronaca. Ma alla ribalta di quest’ultima Cavriago sale anche per un’altra singolare occorrenza: ha un busto di Lenin al centro della sua piazza, parimenti dedicata al rivoluzionario ottobrino. Il busto fu un dono dell’ambasciata URSS nel 1970 per i particolari meriti filosovietici del comune emiliano.
Chi è nato in Emilia sa bene che la provincia di Reggio e in parte quella di Modena sono il vero cuore rosso d’Italia. Non c’è paese o contrada che non annoveri viale della Resistenza, stradone dei Martiri di Stalingrado, piazza Fratelli Cervi, comprensorio Anna Kuliscioff e via sinistrando. Per carità, nulla contro coloro che hanno sacrificato tutto per causa di libertà e per il loro credo. Né contro chi ha ritenuto di celebrarli nella toponomastica. Chi è nato in Emilia ha conosciuto il Comunismo come sistema amministrativo e ha conosciuto il comunismo delle persone che ci hanno creduto.
Sono due cose diverse, il primo era un congegno destinato al fallimento in nuce. La deriva degenerativa delle rivoluzioni era stata già ampiamente sperimentata con quella francese. Le lezioni da trarne furono allegramente sorvolate da Hegel e dalla sinistra hegeliana: la storia, la Storia avrebbe guidato il suo carro trionfante su montagne di cadaveri. Attraverso Feuerbach ed Engels, che funse da davanzale alla visione economica del mondo di Marx, i concetti cardine dell’idea sovietica post 1917 si andarono consolidando nel nome del materialismo dialettico e della dittatura del proletariato. In mezzo, l’ubriacatura della Belle Époque, la guerra santa dei pezzenti, i contadini curvi sotto l’ingiustizia, la fiaccola dell’anarchia.
Questa dolorosa percezione della disuguaglianza, come dire, genetica creò il filone parallelo al Comunismo, quello del comunismo. La rettitudine, la solidarietà, l’amore per la gente, il lavoro, l’onestà. Questo è stato il comunismo. Il Comunismo invece è inevitabilmente sfociato in Stalin. Nel 1970, revisionismo, strappi erano già avvenuti, ma il comunismo volle comunque celebrare Lenin a Cavriago. La svolta della Bolognina, dopo la caduta del muro di Berlino, ha cancellato il Comunismo ma ha lasciato senza dimora il comunismo. Ha reso invisibili i comunisti come entità etica, il loro rigore nei diritti sociali seppellito sotto l’ossessione per i diritti civili del partito che oggi dovrebbe ancora rappresentarli.
Tant’è che oggi il comunismo etico viene propugnato da un pontefice che ne sembra l’unico reale erede e che lo pratica in modo quasi eretico rispetto all’impianto di fede, liturgia ed escatologia della plurimillenaria Chiesa. Dovrebbe occuparsi della scristianizzazione, dell’islamizzazione dilagante, del relativismo, della sessualità liquidificata e invece si occupa di poveri e diseredati. Fa bene, fa male? Ognuno giudichi. La politica ha però lasciato per strada i comunisti, ha accettato il capitalismo per quello che esso non è, una filosofia. Il capitalismo è una prassi, nessuno infatti lo ha mai teorizzato come fosse un credo e così oggi fa specie sentire i tecnomiliardari impancarsi a dare verità, a sbandierare i loro universali come nessuno dei veteromiliardari ha mai fatto. Ricordate una tirata di Rockefeller del calibro di quelle di Musk, una lectio magistralis di Ford come le favolose raccomandazioni esistenziali di Jobs?
Il comunismo dava carne e sostanza terrena laddove il cristianesimo dava speranze ultraterrene. Averlo escluso dal nostro scibile ha significato transitare nella società del chissenefrega. Al mondo ci sono tanti finti burberi che sotto sotto poi sono dei veri buoni. Io sono il contrario. Sotto sotto sono un vero burbero e del prossimo inteso come categoria evangelico-universale tendo a vedere i problemi e i fastidi. Ciò non mi impedisce sui singoli episodi di commuovermi fino all’annichilimento, a non dormire la notte per un povero cane abbandonato che ti guarda con gli occhi miserevoli; per una ragazzina che evidentemente non ha il computer a casa e va dalla cartolaia, probabilmente povera quanto lei grazie a questi schifi che hanno affossato ogni piccola bottega, per farsi aiutare a fare la ricerca scolastica che quelle amebe cui regalano gli smartphone fanno tra una noia, un tweet e quattro lamentele sulle serie spoilerate. Mi lacerano l’anima le vite calpestate, gli ideali disillusi. Su un volo trovai una suorina, Amneris, i suoi dovevano avere molto amato l’Aida di Verdi, che tornava in Africa dopo avere rivisto da anni i suoi, aveva già avuto la malaria, povera figlia; le ho dato tutto quello che avevo nel portafoglio.
La capacità di pensare alle povere vite retrostanti a quanto vediamo con i nostri occhi, la solitudine, il cammino dei bambini già segnato dall’ombra del bisogno, della solitudine. La solitudine dei sentimenti, la solitudine delle speranze, sempre più anguste e ristrette mentre risuonano tutti gli schiamazzi di una vita superficiale, imbecille, nel deserto di altre numerose e infami solitudini, le mani tese che ricadono desolate nel vuoto. Diceva un libro di tanti anni fa: sappiamo misurare la portata di un ponte, la forza di una gru ma non sappiamo quanto è il peso della solitudine che un uomo può sopportare.
I bimbi che si aggrappano alla mamma perché non hanno altro e più vedono degrado, vergogna, più si aggrappano, e lei è alcolizzata e lo spavento diventa amore più forte, più illogico, una risata e poi magari botte da orbi. E io continuo a pensarci, a non dormire alla notte al pensiero di quanto Weltschmerz, quanto dolore universale ci abbia propinato il fattore dell’antimateria che molti chiamano Dio.
Quante strade dovrà fare da solo un uomo prima che tu lo possa chiamare uomo? Il potere … la gloria … che cosa cercavi? Perché ti alzavi presto, prendevi treni gelati, contavi i giorni per compiere più anni, per avere meno esami tra te e la laurea, avanti, avanti. Seduto sulla rovina di un tempio greco, o a guardare le stelle della Croce del Sud, o le risse delle galline o il pianto del bimbo che chiede l’impossibile o quella nuvola e quanti disgraziati la vedono nello stesso cielo e sognano che ne esca una mano che parla e dice fratello.
Siamo fratelli, maledetto tutto, e fratelli resteremo dopo avere finito con l’ultimo rantolo di maledire ogni cosa. Fratelli in questa immensa, immonda solitudine, rientrando a sera con i nostri numeri non vediamo neanche le lacrime da consolare come diceva quel papa buono, solo il muro del nulla e lo sferragliare di un carrozzone che procederà anche senza di noi, quando l’odiato momento ci toglierà a questo mondo con l’ultima nostra maledizione.
Non fare finta che non lo sapevi, tutto il cristianesimo che ti hanno inculcato ruota attorno alla morte, sicura, e alla salvezza, incerta. In mezzo, la solitudine, tanti fratelli abbandonati, tante suorine, tanti bimbi segnati. Non dire che non lo sapevi.