Su queste “colonne virtuali” mi sono occupato frequentemente di tematiche riconducibili all’organizzazione, anche se in una prospettiva più divulgativa che accademica.
Torno a farlo enunciando una serie di principi astratti e provando poi ad ancorarli ad esempi concreti che siano sotto gli occhi di tutti, anche se apparentemente lontani da ciò che vorrei descrivere.
Partiamo dall’assunto elementare che la finalità di un modello organizzativo sia quella di garantire un determinato livello di performance. Sembrerebbe un’affermazione talmente lapalissiana da non dover essere esplicitata, ma in realtà non è così.
In primis perché l’estensore della norma o l’analista del processo non coincidono mai con l’utente finale, in secundis perché per una numerosa serie di ragioni e condizionamenti si indulge spesso ad autoreferenzialità ed autocompiacimento tali da portare a risultati formalmente impeccabili, ma sostanzialmente inutili quando non addirittura dannosi.
Di ciò ci accorgiamo quasi sempre tardivamente perché anche tra gli addetti ai lavori, finissimi analisti organizzativi, c’è a volte la difficoltà a comprendere la differenza tra un malfunzionamento ed una criticità.
È un concetto talmente banale…da risultare incomprensibile.
Chiunque apparentemente è in grado di capire che l’autoradio che non va è un malfunzionamento ed uno pneumatico che scoppia una criticità, un finestrino che sibila un malfunzionamento, il carburante che non arriva al motore una criticità, l’accendigas che non funziona un malfunzionamento mentre la bombola di gas che esplode devastando un palazzo una criticità.
Chiunque…ma gli esempi che ho citato sono riferibili a sistemi semplici.
Ben diversa è la questione quando si tratti di sistemi complessi.
In un sistema ad alta complessità infatti la priorità organizzativa non è tanto il gestire CIÒ CHE MANCA al fine di incrementare la performance quanto CIÒ CHE ABBIAMO al fine di non deprimerla.
Questo apparente paradosso in realtà ha una spiegazione piuttosto intuitiva.
Una grande struttura organizzativa dispone di una enorme quantità di dati, informazioni, procedure, processi, norme, policy che richiedono attività fortemente impattanti in termini di analisi e di risorse per mantenere una condizione di efficienza.
In questo mare magnum è molto arduo distinguere il “rumore di fondo” dal “segnale”: il fenomeno è arcinoto e nella letteratura organizzativa è indicato con il termine “signal to noise ratio”.
In parole povere la criticità può essere causata non dalla carenza di informazioni, quanto dal loro eccesso: poche informazioni vere e rilevanti sono spesso sommerse da una massa di informazioni false e/o irrilevanti.
Immaginate di essere in un ambiente rumorosissimo in cui dovete percepire uno scricchiolio e capire se si tratti di qualcuno che stia camminando sul parquet o di un rovinoso cedimento strutturale.
In questo contesto metà degli analisti giungono alla conclusione che si tratti di un parquet che scricchiola e l’altra metà invece che la struttura stia collassando.
Tanto più aumenta la pressione ambientale tanto più iniziano a prevalere gli aspetti di ordine cognitivo e psicologico rispetto a quelli fattuali.
In questo contesto emerge generalmente una propensione degli attori a raccogliere ed interpretare le informazioni in maniera selettiva, piuttosto che rimettere in discussione le proprie convinzioni.
Anche qui non sto inventando nulla perché tale comportamento è noto come distorsione di conferma (confirmation bias).
A rendere ancor più vischiosa la situazione un elemento che ho ricondotto in un mio personalissimo teorema da me battezzato “l’inerzia dei sistemi complessi”.
L’enunciato del teorema è che l’inerzia di un sistema organizzativo è direttamente proporzionale alla sua complessità.
Inerzia, si, proprio quella del primo principio della Dinamica di Newton, ovvero la tendenza di un corpo a mantenere lo stato di quiete o di moto fino a che non interviene una forza esterna a modificarlo.
Per illustrare ciò che intendo ricorrerò ad un esempio surreale.
Immaginiamo due realtà, una semplice (il fornaio sotto casa) ed una complessa (la più importante filiale della più importante banca italiana).
Il commesso del fornaio prende a schiaffi tutti i clienti che entrano in negozio in un determinato giorno.
Lo stesso fa il direttore della filiale dell’importante banca.
Nel primo caso il proprietario del negozio rileverà immediatamente sui suoi incassi le conseguenze della fuga a gambe levate di tutti i clienti schiaffeggiati dal commesso.
Nel secondo invece l’amministratore delegato non rileverà mai questo accadimento dalle sue evidenze, perché 50 clienti che chiudono i rapporti sono compensati dalle decine di migliaia di operazioni di segno contrario che avvengono fisiologicamente ogni giorno in una grande banca.
Ergo, fatti che appaiono della stessa gravità a chi vi assiste hanno in realtà impatti ben diversi a seconda dell’estensione e della complessità dell’organizzazione interessata dall’accadimento.
Ne consegue che anche le modalità nel registrare e comunicare l’evento all’interno della struttura saranno del tutto diverse.
Nel caso del fornaio il proprietario lo apprenderà direttamente ed immediatamente; nella grande banca invece ogni livello organizzativo valuterà se il fatto meriti o meno di essere portato all’attenzione di quello superiore.
In più in alcuni ambiti di grandi organizzazioni possono essere presenti modelli a matrice che di fatto spezzano l’unità lungo la catena di comando, in quanto ciascun soggetto riferisce gerarchicamente ad un responsabile e funzionalmente ad un altro o ad altri e tutti questi attori potrebbero esprimere sullo stesso tema valutazioni del tutto diverse.
Inoltre di solito gli ambiti di competenza sono delineati in modo prettamente formale, per cui le relazioni tra i diversi attori sono sostanzialmente tra pari, il che non aiuta nei momenti di crisi.
La vera gerarchia tra le diverse strutture è orientata, al di là di quanto formalmente stabilito, verso chi ha le deleghe per disporre di risorse, umane e finanziarie.
Un vecchio detto popolare romano esplicita perfettamente questo principio: articolo quinto, chi cià i sordi in mano ha vinto.
Quando poi la criticità ed il danno conseguente sono acclarati, la tendenza è quella di intervenire sul singolo, il che può avere un senso nel caso del commesso del fornaio, ma non ne ha nel caso di strutture complesse.
Per le motivazioni che ho esposto, criticità particolarmente gravi che investono strutture organizzative estese molto di rado possono essere ricondotte a errori macroscopici commessi dal singolo, in quanto più credibilmente scaturiscono da veri e propri fallimenti strutturali.
La ricerca del classico capro espiatorio risponde all’ottimistica e rassicurante tendenza a immaginare (più o meno in buona fede) che sia sufficiente rimuovere un individuo o un gruppo di individui perché il problema non si ripresenti.
In realtà tanto più è complessa ed articolata l’organizzazione interessata, tanto più sarà necessaria una profonda riprogettazione strutturale della stessa, che però avrebbe tempi e costi ben diversi rispetto al semplice tagliare qualche testa.
Inoltre le teste tagliate sovente sono vincolate ad obblighi di riservatezza per cui tengono la bocca chiusa su come siano andate realmente le cose.
Mi rendo conto che l’esposizione stia diventando noiosa: in premessa avevo assicurato che l’avrei ancorata a qualche esempio concreto e credo sia giunto il momento di farlo.
Il rapporto finale della Commissione Nazionale d’inchiesta sugli attentati dell’11 settembre pubblicato nel 2004 (Final Report of the National Commission on Terrorist Attacks Upon United States, meglio noto come 9/11 Commission Report) evidenzia, tra l’altro che:
1) tutte le informazioni che potevano far prevedere l’attacco erano in possesso dell’Intelligence Statunitense, ma il sovraccarico delle stesse ha impedito di enucleare quelle significative (signal to noise ratio).
2) la maggior parte degli analisti sotto pressione è rimasta ancorata ai propri convincimenti e cioè che al-Qaeda avrebbe colpito gli interessi americani all’estero, ma non sul suolo americano (distorsione di conferma, confirmation bias).
3) La Comunità di Intelligence degli Stati Uniti era frammentata in più di una dozzina di agenzie civili e militari, facenti capo a differenti istituzioni, dicasteri e strutture governative.
4) Formalmente il ruolo di coordinamento spettava al Direttore della CIA, ma questi gestiva il 20% del budget del comparto mentre la quota restante era in capo al Dipartimento della Difesa (articolo quinto, chi cià i sordi in mano…). Il Direttore della CIA inoltre non aveva delega per gestire personale, risorse e progetti al di fuori della CIA.
5) le differenze più macroscopiche sotto il profilo organizzativo erano tra CIA ed FBI, la prima con un assetto accentrato mentre la seconda era fortemente decentralizzata con 56 uffici dislocati sul territorio, tutti con forti autonomie nel gestire priorità, risorse e personale.
6) all’interno della stessa CIA era presente una netta demarcazione tra il Direttore delle Operazioni (responsabile della raccolta clandestina delle informazioni e delle operazioni sotto copertura) ed il Direttore dell’Intelligence (responsabile della produzione e della diffusione delle analisi di intelligence).
7) l’attentato dell’11 settembre fu agevolato anche da una falla presente tra le due principali organizzazioni di intelligence, la CIA e l’FBI: la prima è un’agenzia indipendente specializzata nell’attività all’estero e per legge non può raccogliere informazioni su cittadini statunitensi in patria né può svolgere attività di polizia o di sicurezza interna. L’FBI è invece un ente investigativo di polizia con una divisione per le attività di intelligence interna e controspionaggio. Gli attacchi dell’11 settembre pianificati all’estero, ma realizzati in territorio americano avvennero in una sorta di “terra di nessuno” tra gli ambiti di responsabilità dei due Enti (fonte: ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).
Potrei dilungarmi allargando l’analisi ai fattori politici, ma uscirei dal sentiero prettamente organizzativo che mi ero prefissato aggiungendo poco a ciò che intendevo illustrare.
Credo quindi di aver dimostrato con sufficienti argomenti perché al-Qaeda abbia ritenuto più semplice attaccare gli Stati Uniti d’America…piuttosto che il fornaio con il garzone manesco.
Fonti: Final Report of the National Commission on Terrorist Attacks Upon United States (9/11 Commission Report) – ISPI Istituto per gli Studi di Politica Internazionale