Dopo 520 giorni di Guerra cosa è cambiato in Ucraina? Verrebbe da dire che l’unica cosa è il numero esorbitante di morti dall’una e dall’altra parte. Per il resto è un inutile guerreggiare che molto somiglia alla Prima Guerra Mondiale o alla guerra Iran-Iraq che per 8 anni vide i due eserciti fronteggiarsi in una sanguinosa guerra di trincea, che lasciò nel deserto 100.000 morti.
La tanto attesa e sbandierata offensiva ucraina si sta rivelando, in tutta la sua tragicità, un disastro. Sembra davvero fatta a solo scopo di propaganda verso i Paesi della Nato, per rassicurarli con il sangue dei valorosi soldati ucraini, che l’aiuto fornito serve a qualche cosa.
Anche un giovane Ufficiale al primo Corso di Scuola di Guerra vedrebbe come questi piccoli attacchi che gli Ucraini stanno conducendo, ormai dall’8 giugno, non sono che piccole punture di spillo contro una difesa che avuto molto tempo per fortificarsi. Sono attacchi disuniti privi di una apparente logica e soprattutto che non usano il concetto di guerra integrata, nella quale le varie componenti vengono utilizzate insieme ed in sinergia, per raggiungere un obiettivo ben definito.
I Russi che hanno dimostrato nei mesi passati enormi carenze organizzative, di comando e nel suo insieme strategiche, si sono riorganizzate attorno ad un concetto molto semplice: difendere la lunga linea del fronte. Hanno allestito fossati, campi minati, denti di drago e fino a quattro linee di difesa protette da una ben piazzata artiglieria. L’aviazione è pressoché assente da ambedue le parti e questo la dice lunga sul livello di incompletezza delle operazioni dei due schieramenti.
Gli Ucraini hanno messo in campo circa 25 Brigate: se generosamente vogliamo calcolare 5000 soldati per ciascuna unità, il totale è di 125.000 soldati. Pochi se si vuole condurre un attacco di sfondamento e contemporaneamente comunque presidiare oltre 1200 km di fronte. Alcune stime ci dicono che nella sola battaglia di Bakmut si sono registrate perdite fino a 15000 morti e 40.000 feriti. Facile intuire come ripianare perdite di questa magnitudine non sia facile, e molte di queste unità continuano a combattere pur essendo pesantemente decimate. Secondo gli standard Nato una Unità che perde più del 15% del suo organico dovrebbe essere rimossa dal fronte e ripianata: Gli Ucraini non hanno questa possibilità.
Mancano di esperienza. I soldati e gli ufficiali che sono stati addestrati dalla Nato tra il 2014 ed il 2021 sono morti. Addestrarne di nuovi richiede tempo e comunque quando poi si trovano ad operare in battaglia non applicano ciò che gli è stato insegnato. L’opera di reclutamento continua incessante, ma si ha la sensazione che si sta raschiando il fondo del barile: le ultime direttive dello Stato Maggiore Ucraino consentono l’arruolamento anche di uomini con disabilità, che comunque verrebbero usati con mansioni non in prima linea.
È chiaro, in questo contesto, che non esistono “armi magiche” capaci da sole di risolvere le sorti della guerra. All’inizio era il Javelin, la leggera arma portatile anticarro la soluzione di tutti i problemi; poi sembrava che la magia dovesse venire dall’Himars un lanciarazzi multiplo che poteva centrare il bersaglio fino a 70 km di distanza. Il passo successivo sono stati i Leopard, poderosi carri armati che avrebbero aperto le difese russe come burro. Adesso si attendono gli F16.
Come si è detto, nulla di tutto ciò è sufficiente se non lo si gestisce in maniera integrata nell’ambito della battaglia. Il fallimento è assicurato anche contro un nemico mediocre come lo sono i Russi, che però anche se tardivamente e male, i loro compitini a casa li hanno fatti.
Intanto non hanno l’assillo del numero di soldati disponibili: è notizia recente che l’età della leva è stata aumentata da 28 a 30 anni ed è prevista un’immissione annua per i prossimi tre anni di 700.00 unità all’anno. In più la loro produzione bellica tiene il passo con il consumo di armi e munizioni che il fronte richiede. Un esempio sono i Droni Lancet prodotti dal Gruppo Kalasnikov, che sono in grado di volare trasportando una carica esplosiva che varia a seconda del modello, tra un Kg e i tre Kg di esplosivo: volano fino a 40 km di distanza e si lanciano in picchiata a 300km all’ora verso l’obbiettivo. Sono letali contro i carri armati (anche se molte immagini mostrano che, pur mettendolo fuori uso, la corazza dei Leopard funziona molto bene evitando la completa esplosione del mezzo, salvando la vita degli occupanti) o postazioni fisse di soldati. Molto difficili da intercettare e abbattere. Sui vari canali che trasmettono in chiaro le immagini della guerra, si vedono un gran numero di questi carri messi fuori uso e abbandonati dagli Ucraini che non hanno assolutamente la capacità di riparare questi mezzi, sia perché non hanno modo di recuperarli sia perché non hanno la logistica per rimetterli in funzione. E questo è un altro grossissimo problema che vale per qualunque sistema d’arma l’occidente fornisca agli Ucraini. Oltre ad addestrarli all’uso devono essere in grado di manutenerli; è questo è un compito altrettanto complicato quanto il primo. Anzi a volte molto di più perché senza i pezzi di ricambio e la logistica per portare quel pezzo all’officina semplicemente il mezzo rimane inutilizzabile. La guerra è tremendamente complicata.
MOSCOW REGION, RUSSIA – JUNE 25, 2019: A ZALA Lancet attack drone developed by Kalashnikov Concern on display at the Army 2019 International Military Technical Forum at Patriot Park. Marina Lystseva/TASS
I Russi hanno similari problemi logistici: rifornire una linea di fronte così lunga richiede uno sforzo continuo ed è per questo che hanno protetto le strade e le ferrovie che corrono alle spalle del fronte. Sono essenziali anche per mantenere il collegamento con la Crimea, incedibile baluardo sul Mar Nero.
Questa guerra non è altro che un perfetto tritacarne. Un inutile tritacarne. Che non giova a nessuno. Evitabile? Certamente, ma non ripeteremo qui tutti gli antefatti che hanno condotto alla scellerata invasione Russa del 24 febbraio. Si poteva raggiungere un cessate il fuoco subito dopo l’invasione? Molto probabilmente sì se Boris Johnson non fosse volato Kiev a recapitare il messaggio di Biden a Zelensky nel quale gli si intimava di sospendere le trattative di pace con l’invasore Russo, assicurando il completo ed incondizionato appoggio americano ed europeo.
Per l’Europa, che, come ha recentemente affermato Prodi, è “sbandata ed incapace di elaborare una politica unitaria per difendere i propri obiettivi e i propri interessi”, c’è più di un prezzo da pagare: politico, economico e militare. Il prezzo politico, oltre a quello a cui si riferiscono le parole del Prof. Prodi, riguarda la rinuncia al multilateralismo. Gli Stati Uniti stanno esercitando una enorme pressione sul blocco del G7 in chiave anticinese, per evitare che si instaurino o si continuino le relazioni con il gigante Asiatico. La minaccia esistenziale per gli americani è rappresentata dalla incredibile crescita di Pechino che minaccia la leadership economica di Washington. Questo è il nocciolo della questione e per contenere questa situazione le varie amministrazioni americane non riescono a contemplare un mondo multipolare nel quale c’è posto per più di una super potenza; sono rimasti ancora ancorati al potere egemonico unico del post- guerra fredda. Questo ha significato tariffe sui prodotti cinesi che lungi dal penalizzare l’economia cinese hanno danneggiato il consumatore americano ed innescato processi inflattivi. Un po’ come le sanzioni: Biden disse un anno fa che le sanzioni avrebbero ridotto della metà l’economia Russa: ad un anno di distanza si può facilmente constatare che così non è. Lo stesso per le tariffe: non servono allo scopo di chi le impone. Dunque, per gli americani è diventato:” o con me o contro di me!”. Che per dirla alla Jeffrey Sachs, noto economista dell’Università della Columbia, è un atteggiamento infantile, non degno di una grande democrazia e che potrebbe avere conseguenze nefaste. Dietro la questione di Taiwan, il pallone sonda, tik tok, il 5 G, di questo si tratta: fermare la crescita di Pechino.
Ma è troppo tardi. Il processo è come l’entropia in fisica: non è reversibile. O se volete, una volta che il genio è fuori dalla lampada, è impossibile farlo rientrare. Ormai c’è una alternativa nel mondo. Si pensi che i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) contribuiscono al Pil mondiale per un valore pari al 31,5% contro il 30,7% del G7. Quindi il giardino incantato di cui parla il Ministro europeo Borrell è solo un infelice tentativo di ristabilire un vecchio concetto coloniale che non è più accettato nel resto del pianeta.
Perché il resto del pianeta che non fa parte del G7, conta 7 miliardi di individui contro lo scarso miliardo di noi” occidentali”: continuare a pensare che noi siamo il centro del mondo è pura fantasia.
È dunque in questo dilemma che ci troviamo noi europei e Italiani. Siamo passati dal famoso “decoupling” al “derisking” a non si sa bene che cosa. La visita di Yellen a Pechino ha in qualche modo segnato questa impossibilità materiale di isolare la Cina. Eppure, le pressioni continueranno. Ed ecco perché il nostro Primo Ministro molto attento ai rapporti con Washington non rinnoverà il vantaggioso accordo con la Cina in scadenza quest’anno.
Quindi la sofferenza politica per l’Europa si traduce in sofferenza economica.
Si prenda ad esempio la scelta energetica europea. Rinunciare alle forniture di gas e petrolio dalla Russia ha comportato, dopo una fiammata dei prezzi che l’inverno scorso hanno messo in ginocchio interi settori industriali e privati, una stabilizzazione molto più in basso ma pur sempre 4 volte superiore a quello di cui godevamo prima della guerra. Se guardiamo alla sola Germania vediamo che tanti giganti dell’industria si ricollocano là dove sia di nuovo possibile competere. BASF la più grande compagnia Chimica al mondo apre in Cina, così come la Siemens che delocalizza a Singapore e Cina. Volkswaghen in Cina e Canada. Si ricordi che il settore auto in Germania da occupazione a 800.000 lavoratori più 150.000 nell’indotto. Non sorprende dunque che la disoccupazione in Germania ha superato il 5%.
L’economia tedesca sta soffrendo, e un vecchio detto dice:” se la Germania starnutisce l’Europa prende il raffreddore”.
Militarmente come europei abbiamo abdicato da sempre la nostra difesa agli Stati Uniti. Credo che, oggi come oggi, la Germania farebbe fatica a mettere assieme una Divisione e la Polonia che è considerato l’esercito più agguerrito della Nato, hanno un addestramento considerato piuttosto patetico.
La bussola strategica, embrione del futuro esercito Europeo, messo in piedi due anni fa a Bruxelles è uno zero assoluto e non me ne voglia il Generale Graziano che ha comunque svolto un eccellente lavoro date le circostanze.
Quindi la situazione richiederebbe un bagno di umiltà ed un ravvedimento delle posizioni europee per porre fine a questa inutile guerra che potrebbe trovare una fine ed anche rapidamente.
Il Wall Street Journal qualche giorno fa riportava in un suo articolo che i decisori europei erano addirittura più intransigenti degli Americani sulla pace in Ucraina. Devo dire che è necessario ammettere che è così, anche se il sostegno popolare non giustifica tali posizioni. Allora non ci rimane che sperare nel 2024, anno di elezioni in America. Biden sa di non avere un assegno in bianco da parte degli elettori. Questo soprattutto in virtù del fatto che diversi programmi sociali sono stati tagliati o rivisti al ribasso e dunque secondo un sondaggio condotto da “Brookings Institute” la maggioranza dei cittadini non vede di buon occhio la spesa senza fine dell’amministrazione Biden, per fornire sostegno ad una guerra di un paese di cui fanno fatica a trovarne la posizione su Google map.