Il mio personale Amarcord, quando la mafia uccideva “prevalentemente” d’estate. Un eroe virtuoso tenuto nascosto: Dante Roberto Chiappini e il caso Salvatore Marino.
In questi giorni sui giornali vanno comparendo numerosi articoli commemorativi delle varie stagioni dei delitti eccellenti di mafia. Hanno iniziato ricordando il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa assassinato nel settembre del 1982 e che ho avuto il privilegio di incontrare da giovane cadetto dell’Accademia di Modena durante una commemorazione della carica di Pastrengo il 30 aprile 1981, un anno e pochi mesi prima della sua tragica fine da Prefetto di Palermo
Ora avendo iniziato da poco la mia collaborazione con questo coraggioso sito di notizie online Giano.news, che lascia spazio anche alle voci più piccole, riservate e nascoste come la mia, ho deciso di fare memoria e testimonianza di alcune dinamiche che mi sono accadute nel corso della vita.
Ci sono in quest’articolo presenti degli eroi normali e nascosti, non conosciuti dal grande pubblico, ma che meritano a mio giudizio di essere ricordati, eroi saggi, umili e pacati rimasti nell’ombra perché non amavano i riflettori e mettersi in mostra.
Il mio primo intervento su questo sito ha fatto riferimento a ricordi vicini, mentre su questo nuovo intervento devo fare affidamento a ricordi lontani ma che ancora sono preziosamente presenti nella mia memoria, inoltre mi è nato un impulso forte per farli conoscere, forse hanno finalmente raggiunto un tempo di maturazione tale per essere tirarti fuori.
Il titolo non lascia adito a dubbi, vi descriverò quindi il mio intenso e multiplo rapporto con la bella isola di Sicilia, il baricentro del Mare Mediterraneo, un’isola che inizialmente, per alcuni traumi che capirete dal seguito del contenuto dell’articolo, avevo preso in acrimonia e che invece “ho imparato ad amare proprio perché non mi piaceva” come soleva dire una delle sue vittime più illustri il Giudice Paolo Borsellino.
Il mio rapporto con l’isola iniziò molto presto, quando nell’estate del 1982, terminata l’Accademia di Modena e trovandomi a dover successivamente trasferire a Roma per frequentare la mitica Scuola Ufficiali Carabinieri di Via Aurelia, decidemmo con alcuni amici di Scuola Militare di Napoli di andare a trascorrere le ferie Augustae in Sicilia. Nostro utile riferimento per motivi d’età, informazioni fresche, e logistica fu il Sottotenente Francesco Capone, un collega di due anni più anziano che inoltre aveva portato a termine l’affiancamento in Sicilia nella trascorsa estate a Monreale.
L’affiancamento era un utile periodo estivo che i giovani ufficiali trascorrevano presso le Compagnie territoriali dei Carabinieri, per apprendere i rudimenti del mestiere, solo conosciuti in forma del tutto teorica nelle lezioni in aula. A Francesco Capone era toccato in sorte nel 1981 di andare a Monreale, dove si era trovato particolarmente bene sotto l’ala protettiva del Capitano Mario d’Aleo.
Si era trovato talmente bene che ci convinse a seguirlo in Sicilia. Così nacquero quelle fatidiche vacanze, in primis per andare a visitare d’ Aleo, poi per conoscere il territorio dell’isola ricca di storia e cultura, dai colori sgargianti e dai sapori accentuati. Mi ero munito di guida e mi ero preparato così come ho poi sempre fatto per ogni viaggio documentandomi accuratamente. Così all’inizio di agosto del 1982 a bordo della Volkswagen Golf grigia Diesel di Francesco in compagnia di Vito Sciruicchio, oggi affermato ingegnere, di Maurizio Celoro, ottimo archiatra, tutti ex allievi SMN, ci imbarcammo con relativi bagagli sul postale navale a Napoli per raggiungere Palermo.
Salpati di sera giungemmo al mattino; di notte ci salutò l’abbraccio del golfo di Napoli illuminato con il busto giallo di San Gennaro, al mattino ci riaccolse il golfo di Palermo con il Monte Pellegrino da dove veglia sulla città la Santuzza Rosalia, accompagnata ai quattro canti giù in città dalle Sante Agata, Ninfa, Cristina e Oliva. Andammo subito dal Capitano Mario d’Aleo a Monreale che ci accolse con grande pazienza ed affetto fraterno e ci trovò subito sistemazione.
Conoscemmo le bellezze architettoniche ed artistiche di Monreale con l’indimenticabile suo Duomo ricco di mosaici e con il volto del Cristo Pantocratore.
Scarrozzavamo felici per l’isola sebbene un giorno in particolare mi resi conto che la Sicilia non era poi così idilliaca come me la ero immaginata. Avevo con me la mia attrezzatura fotografica e proprio a causa di questa incappai in una situazione spiacevole. Eravamo andati a Partinico, vicino Monreale, per assistere alle corse dei cavalli su strada. Avevo fatto molti scatti agli animali in corsa, poi mi ero avvicinato al traguardo ed avevo fatto alcune riprese al palco dove presenziavano autorità locali e ospiti invitati. Quando si accorsero che scattavo loro delle foto inviarono subito alcuni loschi figuri per prendermi la macchina fotografica ed i rullini, non era ancora il tempo del digitale.
Provvidenzialmente intervennero alcuni Carabinieri che presenziavano la manifestazione per l’ordine pubblico, mi caricarono di peso in un’auto e ci allontanammo dal pericolo. Il Capitano d’Aleo in seguito mi spiegò che con ogni probabilità sul palco potevano essere stati presenti dei soggetti che non avevano gradito le riprese: forse latitanti? Chissà, ma salvai la mia preziosa attrezzatura fotografica. Terminate le vacanze rientrammo a Roma e riprendemmo ognuno le nostre attività e gli studi. Quando tra gli scatti trovai delle foto che ritraevano il Capitano le catalogavo e mettevo da parte. Terminato questo lavoro lo chiamai telefonicamente dalla Scuola Ufficiali per anticipargli l’invio di un plico fotografico.
Quel giorno mi rispose con voce sommessa, mi ringraziò, ma mi disse che non poteva parlarmi a lungo perché era in corso una visita ispettiva al Comando di Monreale del Colonello Mario Satariale che poi morirà in un incidente aereo a Torino. A distanza di pochi giorni da questo contatto telefonico, il 13 giugno 1983, il secondo comandante della Compagnia di Monreale veniva ucciso dalla mafia a Palermo in via Cristoforo Scobar mentre era accompagnato dall’ Appuntato Giuseppe Bommarito e dal Carabiniere Pietro Morici che con la sua 132 Fiat ci aveva accompagnato durante le vacanze trascorse in Sicilia a Trapani e ad Erice.
L’omicidio D’Aleo avveniva dopo che nella stessa Monreale era stato già in precedenza ucciso il Capitano Emanuele Basile il cui fratello di Fanteria Carrista era stato nostro istruttore in Accademia Militare a Modena.
Basile era stato stretto collaboratore del giudice Paolo Borsellino. Sia Basile che d’Aleo sono stati insigniti alla memoria della medaglia d’oro al valore civile. Il funerale di Mario d’Aleo avvenne in forma pubblica, funerali di Stato, a Palermo, ed in forma privata a Roma.
Ebbi l’onore di essere prescelto con altri cinque colleghi tra cui Giancarlo Cirielli, oggi Magistrato a Roma, per trasportare la bara a spalla dopo la cerimonia funebre che si svolse nella Chiesa di San Lorenzo per la successiva tumulazione al cimitero monumentale del Verano. Fu la prima volta che mi ritrovai su una foto pubblicata da un giornale romano, ma vi assicuro che non fu affatto per me un momento di gioia.
Ora forse potete capire e comprendere perché mi sono dovuto sforzare ad imparare ad amare la Sicilia anche se non mi piaceva. Passò qualche anno ancora di formazione e quando fui inviato al mio primo reparto, al battaglione mobile Toscana di Firenze, città d’arte che avevo scelto come mia prima sede, nell’illusoria speranza di potermi dedicare in qualche ritaglio di tempo ai musei e agli studi universitari di giurisprudenza che avevo intenzione di portare a termine. Invece da Firenze mi trovai nuovamente catapultato in Sicilia a Palermo ed esattamente nell’agosto del 1985, poco dopo gli omicidi del Commissario Beppe Montana e del Vicequestore Ninni Cassarà.
Vista l’estrema urgenza con cui dovevo raggiungere Palermo, l’amministrazione mi autorizzò l’uso del mezzo aereo da Firenze a Palermo. Quando salii sull’aereo in partenza con mia grossa sorpresa mi ritrovai seduto al lato di un uomo già attempato che riconobbi subito per aver letto su di lui varie notizie giornalistiche, quasi completamente calvo e dallo sguardo triste, difeso da un paio di grossi occhiali in parte sfumati. In prima fila sull’aereo sedevo a lato del Procuratore Antonino Caponnetto che viaggiava da Firenze, ove aveva casa, per Palermo dove svolgeva le sue funzioni di Capo del pool Antimafia, avendo sostituito il Procuratore che lo aveva ideato Rocco Chinnici, tragicamente morto in un attentato. Quando mi sedetti accanto a lui non potei non notare lo sguardo ansioso e preoccupato del Magistrato.
Ricordo che ero vestito di tutto punto, ma i suoi occhi mi scrutavano e studiavano attentamente. Capita e compresa l’imbarazzante situazione mi presentai dicendogli chi ero, che lo avevo subito riconosciuto e che anch’io ero fieramente in partenza per una missione a Palermo per dimostrare che lo Stato accorreva in soccorso dei suoi funzionari in pericolo e più esposti. Nel cuore e nella memoria intanto facevo il conteggio delle vittime con le quali ed in qualche modo ero entrato in contatto, la lista era già lunga: Dalla Chiesa, Basile, Mario d’Aleo.
Ora dovevo aggiungere Cassarà, Montana…Caponnetto finalmente si sciolse e conversammo a lungo ed amabilmente durante il volo in rotta verso Palermo. Mentre l’aereo effettuava le manovre di avvicinamento il Procuratore mi disse che una scorta lo attendeva al suo arrivo e che direttamente lo avrebbero prelevato sulla pista d’atterraggio. L’aereo fortunatamente compì magistralmente le sue manovre, Punta Raisi non è un aeroporto facile, costruito a lato di Monte Pecoraro è spesso spazzato da violente raffiche di vento, risultando scomodo e pericoloso. Atterrato l’aereo il Procuratore ed io lasciammo che tutti i passeggeri scendessero.
Ricordo lo sguardo affilato ed acuto di Caponnetto che dai finestrini cercava la scorta sulla pista, ma del convoglio non c’era traccia. Mi guardò, capii al volo e gli dissi: “Procuratore non si preoccupi resto qui con lei”. Lui mi sorrise e mi ringraziò.
L’attesa fu lunga e snervante, eravamo soli, l’equipaggio ci aveva lasciato a bordo dell’aereo, noi due soli su un aereo nel parcheggio della pista a Palermo dove era in corso un duro regolamento di conti tra Stato e mafia. Dopo circa un’ora arrivarono le alfa blindate con lampeggianti e sirene; c’era evidentemente stato un equivoco di comunicazione sugli orari, ma vi posso assicurare che in quell’ora di attesa nella mia testa sono transitate le più sottili e recondite congetture.
Eravamo a Palermo, io ancora non riuscivo ad elaborare la perdita di Mario d’Aleo, Caponnetto era il sostituto di Chinnici che era saltato in aria sotto casa sua in via Giuseppe Pipitone Federico. Il Procuratore Caponnetto mi strinse con gratitudine la mano ed io ricambiai con la mia giovanile e vigorosa stretta di mano ed un sorriso, il Procuratore scese la scaletta dell’aereo , salì sulla blindata di scorta e si allontanò.
Mi rendevo conto che era stato un privilegio conoscerlo ed in seguito mi emozionai e mi commossi quando rilasciò la famosa intervista “Tutto è finito “immediatamente dopo l’attentato e la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta nel luglio del 1992. Scesi anch’io poco dopo dall’aereo e con mezzi normali raggiunsi la città e mi insediai a Mezzo Monreale, in via Calatafimi, alla caserma Tükôry, dove poi, in seguito, ebbi il privilegio di essere il Comandante della Radiomobile di Palermo. Chi è Tüköry vi chiederete.
A me lo chiese anni dopo un Colonello molto erudito Giuliano Ferrari, vicecomandante della Regione Sicilia, già mio dotto docente di diritto internazionale umanitario, per fortuna sono sempre stato molto curioso di storia e mi ero informato e sapevo che Lajos Tüköry era un capitano di origini ungheresi al seguito dell’eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi, con i Mille in Sicilia, morto proprio conquistando Palermo.
Li alla Tüköry dove ci sono ampi parcheggi in superficie e sotto ci sono molte tombe fenicie, poiché è l’area della necropoli punica, nell’agosto del 1985 c’erano tutti i nostri mezzi e gli alloggiamenti per i militari giunti a Palermo a dare un minimo di sicurezza ad una città sconvolta dagli omicidi di Beppe Montana prima, e poi di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia.
Natale Mondo si era salvato nascondendosi sotto l’auto blindata. La mafia regolerà i conti con lui avanti, anni dopo essersi dovuto difendere dall’ infamante accusa di essere stato la talpa che aveva tradito Cassarà.
Accade anche questo in Sicilia se scampi ad un attentato. In questa situazione tesa e drammatica un momento brevemente lieto, ma intenso e ricco di sorprese, fu l’incontro con un mio collega e mentore il Tenente Dante Roberto Chiappini, originario di Castelnuovo Garfagnana, incaricato all’epoca di dirigere la Sezione Omicidi del Nucleo Operativo.
Dante era una mente molto brillante e raffinata, più anziano d’età aveva terminato gli studi a Pisa ed era entrato nel corso Applicativo già avanti negli anni, grazie anche all’interessamento del Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa che da Vicecomandante aveva presieduto la Commissione d’ingresso al corso ed aveva immediatamente percepito le straordinarie qualità umane ed intellettuali di Chiappini.
Dante era un uomo molto colto, calmo, posato e riflessivo, un saggio ed un giusto inviato da Dio a dare un barlume di luce e di speranza in quell’inferno. Mitici per me sono i ricordi delle nostre camminate peripatetiche nei corridoi e nei giardini della Scuola Ufficiali dove lui mi spiegava tutto quello che aveva studiato, trasmettendomi il suo sapere da collega anziano a me giovane discente, ed i suoi funambolici esami nella stessa Scuola, quando dopo essersi preso almeno cinque minuti di pausa di riflessione dalla domanda del Professore di turno, si voltava verso la platea sorridente e con un brillo particolare negli occhi…poi iniziava a citare le più consistenti tesi giuridiche sull’argomento in oggetto richiesto per poi passare a pronunciare tutte le sentenze della Cassazione passate e recenti.
Al termine noi giovani colleghi che conoscevamo la sua erudizione e presenziavamo all’esame approvavamo con scroscianti applausi finali le sue dotte dissertazioni ed i Professori e i membri della Commissione si facevano piccoli piccoli difronte al suo ineguagliabile ed umile sapere. Uno spettacolo che si ripeteva in tutte le materie giuridiche ed anche in Medicina legale.
Or dunque un personaggio del calibro di Dante mi confidava mentre eravamo seduti ad un tavolo di un bar in un parco lussureggiante del centro storico a Piazza Marina a poca distanza dove era stato ucciso Joe Petrosino, che in quel convulso momento che vivevamo a Palermo, con tutti quei cadaveri eccellenti per le strade, che in quei giorni erano stati proprio i suoi uomini e lui stesso i primi ad arrestare Salvatore Marino, il killer del gruppo di fuoco che aveva ammazzato il Commissario Beppe Montana.
Marino fu tradito dal suo incauto comportamento, venne letta la targa della sua moto che si allontanava dal luogo dell’agguato, il cantiere navale di Porticello. Salvatore Marino era un rivenditore di cozze e ricci di mare, ma anche un buon calciatore semiprofessionista. Il giovane dunque fu catturato ed arrestato dal Tenente Dante Roberto Chiappini e dai suoi uomini della Sezione Omicidi del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo. Durante la perquisizione a casa Marino fu rinvenuta una scatola di scarpe con 34 milioni di lire in banconote, che all’epoca era una bella sommetta. Inoltre aveva fornito una serie di false notizie su suoi presunti alibi. Accertato che i soldi non provenivano da compensi calcistici, Dante compilò il verbale di arresto e stava per associare l’arrestato al carcere dell’Ucciardone come da prassi consolidata per mettere a disposizione dell’Autorità Giudiziaria l’indiziato.
Qui avviene una svolta, il suo diretto superiore comandante del Nucleo lo chiamò improvvisamente a rapporto e gli disse che avevano concordato con i responsabili della Squadra Mobile della Questura di Palermo di fare “un verbale di consegna dell’arrestato “per cedergli il presunto esecutore dell’omicidio del Commissario Montana. Dante da uomo saggio e pacato ed esperto giurista si oppose con tutte le sue forze paventando i rischi che si correvano nell’ effettuare una palese violazione alle norme procedurali penali.
La linea gerarchica non voleva sentire ragioni e voleva costringere Chiappini a firmare il farlocco verbale.
Fu allora che il buon Dante tirò fuori dal cilindro la sua più grande soluzione italica o genialata, altrettanto degna quanto la brillantezza dei suoi esami: si ritirò in camera per rinfrescarsi e si nascose nell’armadio, considerate che era pure di grande stazza, un titano gigante. Non voleva essere complice di una tale nefandezza giuridica, presagiva i pericoli che una tale delicatissima situazione nascondeva, ma doveva anche pensare ai rapporti di gerarchia interna che lo subordinavano ai voleri dei superiori e rimanere in equilibrio precario.
Partecipare ad un errore procedimentale così crasso era contrario alla sua intelligenza ed alla sua deontologia, non voleva assolutamente firmare un verbale di “consegna dell’arrestato “. Non trovandolo in ufficio e non sapendo dove fosse, il suo superiore diretto, all’epoca non c’erano i cellulari, trovò non si sa come il tempo di compilare una lettera di rimprovero dattiloscritta in cui si affermava che censurava il comportamento del Chiappini facendo notare che aveva mancato di collaborazione in un momento delicato, con data e firma e riferimento al caso Salvatore Marino facendogliela recapitare in camera.
Il tutto sembra avverso al nostro mitico Dante e la sua leggendaria sapienza, la lettera e busta con cui Dante andava in giro in quel periodo a Palermo me la mostrò compiaciuto durante le nostre conversazioni, dicendomi con aria profetica ed in amicizia testualmente “questa lettera mi salverà “. E così fu. Salvatore Marino fu consegnato con verbale alla Polizia di Stato dai Carabinieri, ma non da Dante.
Marino in Questura fu sottoposto ad un duro interrogatorio e a mano a mano che gli indizi si cumulavano a suo carico e gli alibi risultavano falsi e menzogneri cresceva l’ira degli investigatori. Cassarà fatalmente si allontanò per una breve pausa dall’ufficio, alcuni suoi collaboratori decisero di sottoporre Marino forzosamente all’interrogatorio con “la cassetta”, cioè a quanto oggi molto più sofisticatamente viene descritto in inglese waterboarding, metodo largamente usato a Guantánamo ed Abu Ghraib. È una vera e propria tortura, l’indiziato reticente viene costretto, supino e con la schiena inarcata, a bere acqua e sale attraverso un imbuto inserito nella gola.
È un metodo d’interrogatorio molto pericoloso che può portare alla morte, cosa che avvenne nel caso di Marino. Cassarà assente per un brevissimo lasso di tempo dall’ufficio al suo rientro trovò Marino cadavere, allora tentò di chiedere consiglio a Falcone, ma alla fine dovrà inventarsi la storia del tutto fantasiosa del ritrovo del cadavere a mare a S. Erasmo.
L’atroce morte di Marino, la cui bara bianca fu portata a spalla dai picciotti alla Kalsa fu strumento utilizzato per screditare la lotta alla mafia. In Parlamento si sottolineavano le violenze delle Forze dell’Ordine. Durante le seguenti indagini della Magistratura sul caso Marino, molti investigatori furono inquisiti e posti sotto processo, Ninni Cassarà non farà in tempo a partecipare al processo perché sarebbe stato ucciso con Roberto Antiochia.
Il mio mentore e amico fraterno Tenente Dante Roberto Chiappini fu scagionato totalmente grazie alla improvvida lettera ed uscì a testa alta da quella situazione contorta e micidiale. Il suo valore venne riconosciuto in seguito perché nel 1991 quando comandava la Compagnia di Montalcino gli venne attribuita con merito la medaglia d’argento al valor civile per un coraggioso salvamento di uomo finito in un fiume a seguito di incidente stradale a Buonconvento, Siena.
Purtroppo Dante ha pagato duramente tutti gli stress che ha dovuto vivere, da Palermo a Sala Consilina a Napoli Castello di Cisterna, si è spento dopo i cinquant’anni di infarto fulminante mentre trasmetteva il suo dotto sapere agli allievi Marescialli a Firenze.
Il giorno prima in licenza a casa, aveva ricevuto gli Avvocati di Castelnuovo Garfagnana per patrocinarli gratuitamente nei casi più complicati. Così come sempre aveva fatto: esercizio dell’attività giuridica senza compensi, gratuita in forma di beneficenza. Un Giusto. Lo voglio ricordare quando a Roma lo incontrai al corso d’Istituto e mangiammo insieme una straordinaria zuppa di lenticchie e salsiccia, era di buon appetito e di battuta salace da buon toscano.
La madre a cui andai a porgere le condoglianze a Castelnuovo mi raccontò in lacrime tutti questi aspetti in parte nascosti di Dante e volle che scegliessi alcuni libri della sua fornita libreria in suo ricordo. Inutile sottolineare che li custodisco ancora gelosamente. Ho salutato Dante l ‘illuminato titano gigante, che ora riposa nel cimitero di Castelnuovo Garfagnana dove guarda dalla sua tomba le maestose e bianche Alpi Apuane: é sepolto insieme a suo padre, anche lui carabiniere, che lo ha seguito a breve distanza di tempo della sua morte.
Sono andato, ritornato e ripartito tante altre volte da e per Palermo e dalla Sicilia compreso per il primo Maxiprocesso a Cosa Nostra del 1986: Michele Greco e altri. Poi nel 1995 di rientro dal El Salvador dove ero stato circa due anni in missione con le Nazioni Unite, il Gen. Giorgio Cancellieri che era stato mio comandante di Legione in Sardegna mi inviò al Comando della Radiomobile di Palermo nella famosa caserma Tüköry, il capitano ungherese garibaldino.
Intanto il numero delle vittime eccellenti era cresciuto, si erano aggiunti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e la sua scorta. Ma questa è un’altra storia per un nuovo articolo, devo fermarmi ho gli occhi opachi per le lacrime ed un nodo alla gola: effetti dell’isola che ho imparato ad amare anche se non mi piaceva.