Ho scritto altre volte su questo argomento e continuerò a scrivere ancora perché credo fermamente al fatto che sia necessario diffondere, come si può e con i mezzi di cui ciascuno di noi dispone, il messaggio che la donazione del sangue e degli organi (in vita e dopo la morte) rappresenta il gesto più coerente con la vita in una comunità civile. L’obiettivo da raggiungere al più presto è quello che la maggior parte delle persone in buona salute dai 18 ai 65 anni doni il sangue in modo che le relative banche non lo facciano mancare agli ospedali che ne fanno richiesta. Oggi ancora non è così. La medesima carenza della disponibilità di organi costringe i bisognosi di un trapianto di rene ad attendere anni sottoponendosi a estenuanti dialisi. Difficile spiegarlo, se non con l’affermazione, che è quasi del tutto assente la cultura della “donazione da cadavere e da vivente”, forse solo perché manca la corretta informazione che dovrebbe partire dalle scuole di ogni ordine e grado. Speriamo che l’attuale situazione migliori in breve tempo e per questo tutti dovremmo fare qualcosa per modificare questa carenza culturale. Io ci sto provando da quando ho dovuto subire in famiglia un trapianto di rene. E per la donazione del sangue da quando ho dovuto smettere di fare il donatore.
La mia riflessione sulla donazione e raccolta del sangue stavolta la farò rivolta principalmente dalla parte del ricevente perché sono reduce da ben quattro trasfusioni che mi hanno fatto riprendere da una forte anemia causata da un’emorragia interna che stava già creando problemi al cuore. Stavo morendo, il sangue immesso nelle mie vene mi ha ridato la vita. Così posso vedere l’argomento della donazione del sangue con un’ottica nuova. Domenica 7 luglio 2021 sono stato ricoverato in clinica per una forte emorragia interna che aveva portato i valori ematici a livelli di gravissima anemia con rischio di sofferenza cardiaca imminente. L’unica soluzione possibile era l’intervento trasfusionale. Per mia fortuna la richiesta urgente di sangue fatta dalla clinica è stata esaudita in poco più di un’ora e così si è potuto iniziare la prima trasfusione che mi ha ridato la possibilità di riprendere un po’ di forze, ma soprattutto, evitare complicazioni cardiache. Nelle ore successive ne sono seguite altre tre. Quando vedevo scendere dalla sacca di sangue, donato da chissà chi, le gocce di quel liquido rosso che entrava nella mia vena, pensavo proprio all’uomo o donna che quella sacca l’aveva riempita con il proprio sangue, all’atto d’amore che aveva fatto per me, proprio per me senza nemmeno conoscermi. E’ stata una riflessione che mi ha seguito per tutto il tempo delle trasfusioni. E questo tipo di meditazione tra me e me, mi dava serenità, alimentava la certezza che ce l’avrei fatta a superare la crisi perché esaltava la bontà e l’amore che, nonostante tutto, legava l’umanità. Oltre alle persone care che mi stavano vicine e mi sostenevano con il loro affetto, c’era anche qualcuno, chissà dove, che aveva donato fisicamente una parte di sé per salvare una vita umana, in questo caso proprio me. Questo pensiero positivo sull’amore diffuso tra la gente, sull’amore di Dio che s’irradia sull’umanità, come sostiene sempre papa Francesco, sono convinto abbia contribuito – senz’altro psicologicamente – a farmi superare le crisi. Il sangue poi ha fatto fisicamente la parte principale.
Anche sul lato della “donazione degli organi” posso testimoniare un caso concreto: quello un membro di famiglia. Il 6 dicembre 2017 mia figlia Laura, malata di una grave disfunzione cronica renale, dopo anni di dialisi, finalmente è riuscita ad avere trapiantato un rene da donatore vivente. Da allora è tornata a vivere! Tanto bello è stato l’evento che merita raccontarlo. Qualche anno prima del trapianto, durante il periodo drammatico della dialisi, tutta la famiglia – nella forma allargata ad affini e acquisiti – si era sottoposta alle analisi per il controllo della compatibilità per fare la donazione di un proprio rene, ma nessuno risultò compatibile. Laura e il marito Paolo si iscrissero allora in una lista per il cross over che, fortunatamente, ebbe il suo epilogo positivo il 6 dicembre 2017. Paolo ha ceduto un suo rene ad un signore, la cui moglie lo ha ceduto a Laura. Nel mio articolo “DONARE È SEMPRE CARITA’ CRISTIANA” pubblicato nell’aprile 2018, si riferisce proprio all’operazione di cui sono stati attori Paolo e Laura operati all’Ospedale Spallanzani (Santo Spirito) e l’altra coppia (che vuole rimanere anonima) operati al Policlinico Gemelli, entrambi ospedali di Roma. Bene affermò papa Benedetto XVI nel discorso ai partecipanti al Congresso internazionale “Un dono per la vita, considerazioni sulla donazione di organi” promosso dalla Pontificia Accademia per la vita del 7 novembre 2008 sul significato della donazione e del trapianto: “… Del valore di questo gesto dovrebbe essere ben cosciente il ricevente; egli è destinatario di un dono che va oltre il beneficio terapeutico. Ciò che riceve, infatti, prima ancora di un organo è una testimonianza di amore che deve suscitare una risposta altrettanto generosa, così da incrementare la cultura del dono e della gratuità…”. Infatti deve essere proprio il ricevente dell’organo trapiantato a farsi partecipe delle azioni atte ad incrementare la cultura della donazione e del trapianto. Così sta facendo mia figlia Laura aderendo attivamente alla Fondazione FIPTO. E un suo importante atto è stato quello di rendere pubblico il suo trapianto fornendo la propria testimonianza diretta, al Progetto del Corriere della Sera “Malattia come opportunità” con un suo articolo pubblicato domenica 12 agosto 2918. Ritengo utile riportare qui di seguito alcune parti importanti dell’articolo. Potrebbero essere utili a qualcuno che soffre in questo periodo le pene della dialisi per capire come se ne può uscire facilmente con un semplice atto d’amore di un proprio familiare, amico o addirittura solo un’anima buona (un samaritano). Eccolo:
“Malattia come opportunità: Non dimenticherò mai il giorno in cui sono rinata: il gesto d’amore infinito di due persone mi ha permesso di ricevere un rene nuovo
La mia malattia è stata – o forse è – un lungo viaggio che ha attraversato buona parte della mia vita. Un lungo viaggio durato oltre 10 anni, nel quale sono stata sempre e costantemente accompagnata dalla mia famiglia che non mi ha mai lasciata sola. Un viaggio fatto di tappe, di percorsi, di resilienza e di sorrisi, di scoperte e di terapie, e di una malattia subdola, silenziosa, ramificata dentro di me da sempre, una di quelle che vengono definite «malattie croniche» che piano piano ha provato a rubarmi pezzetti, sempre più ampi, di vita. Un viaggio fatto di una lunga battaglia per la vita, per una vita normale, che ho combattuto e combatto ancora supportata per fortuna da tanto amore: la mia famiglia, le persone speciali che mi amano e non mi hanno mai abbandonata; gli angeli, gli infermieri, i medici, gli altri malati che ho incontrato lungo questo viaggio nei posti più incredibili e mi hanno teso la loro mano stringendo la mia, e talvolta hanno raccolto anche le mie lacrime. Dicono di me che sono una combattente. Forse è vero ma è altrettanto vero che le battaglie non si combattono e soprattutto non si vincono mai da soli. E diciamo la verità: anche i combattenti più coraggiosi devono fare incontri con le paure più profonde, spesso piangono e talvolta urlano dalla rabbia. ….
Il giorno nel quale sono rinata, grazie al trapianto, e al gesto d’amore infinito di mio marito Paolo e di una coppia a me ignota, non lo dimenticherò più. La bellezza è questo. È un dono incondizionato di vita, nel mio caso un rene, che si è realizzato grazie alla determinazione e la volontà di due soggetti sconosciuti tra loro: mio marito e la mia donatrice. Tecnicamente si chiama «cross over». Risultato: hanno donato la vita a me e ad un secondo ricevente. Non va di moda oggi parlare di amore profondo e incondizionato in questo mondo moderno. Ma questo lo è. Come non va di moda parlare d’imperfezione in una società che mette sotto i riflettori la perfezione. La malattia per molti è imperfezione, lo sono i tubi fissi che ci impiantano nel corpo per consentirci di tenerci in vita e purificare il nostro sangue, il nostro corpo, il nostro cervello. La cicatrice che mio marito porta con orgoglio sul suo fianco destro per molti è imperfezione; per me è l’immagine più vera del suo amore; ogni volta che i miei occhi si posano su di essa non possono che riempiersi di lacrime. Questo impulso di generosità che è stato passato al vaglio da giudici e psicologi, ma nessuno può davvero sapere che cosa spinga un essere umano, nel pieno possesso delle sue facoltà, a fare il bene incondizionato. Qui sta la meraviglia: più ancora che nel privarsi di un pezzo non essenziale, ma comunque rilevante, del proprio corpo per regalarlo a uno sconosciuto, per salvare anche la persona che si ama e con la quale si sta condividendo una malattia usurante. Il tutto nel silenzio e nel riserbo. I gesti sono contagiosi più delle parole ha scritto qualcuno. Forse perché, a differenza delle parole, non parlano alla pancia delle persone ma direttamente al cuore. E aggiungo che questo gesto di amore dobbiamo imparare a riceverlo e a proteggerlo e questa è la responsabilità più grande che ora sento. Il 6 dicembre 2017. Il giorno di San Nicola è stato il giorno del mio trapianto. E anche questo ha un senso profondo per me. Sono rinata grazie anche alla ricerca scientifica, alla perseveranza, alla tenacia e alla professionalità dei medici che mi hanno seguito e alle mani «magiche» che hanno rinnestato la vita nel mio addome e nel mio corpo cosi consumato. ….
Ricordo perfettamente quando la sera del 6 dicembre ho aperto gli occhi in terapia intensiva. La prima domanda: mio marito come sta? La seconda domanda: come sta l’altra coppia? La terza quasi sussurrata: funziona? Furono tutte risposte positive e il miracolo prendeva vita… I miei figli mi ripetevano costantemente «mamma ce la facciamo». …
Ogni tanto guardo le mie cicatrici che segnano la mappa geografica della mia malattia, e continuamente mi incanto mettendo la mano sempre li, sul fianco destro, dove pulsa e lavora il mio nuovo rene come volessi proteggerlo con questo gesto. Questo racconto è una piccolissima parte del mio taccuino di viaggio nel quale continuo ad appuntare oggi la mia vita post trapianto. Solo il destino traccerà la strada, la mia strada. Spero possa rappresentare una testimonianza di positività a tutte le persone che vivono situazioni simili in modo da restituire un pezzettino del bene che ho ricevuto in questi lunghi 10 anni…”
Laura Di Raimondo
Questa testimonianza rientra nel Progetto «Malattia come opportunità» di Corriere Salute