Se c’è un aspetto meritorio da ascrivere, comunque la si pensi, al governo attualmente in carica, è quello di avere fin dal primo minuto affermato la propria fattiva vicinanza al popolo ucraino, vittima della brutale invasione russa.
Un atteggiamento che colloca l’Italia non tanto e non solo nell’ambito delle nazioni che sono a buon diritto membri dell’Occidente e della NATO; ma soprattutto in quello delle nazioni che – Costituzione della Repubblica Italiana dixit – “ripudia(no) la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
L’interpretazione di questo bellissimo articolo della nostra carta fondamentale soffre – per alcuni – di un equivoco di fondo: ripudiare la guerra non vuol dire astenersi dalla stessa ove necessario. Significa invece sostenere un sistema di valori che considera la guerra come l’extrema ratio, la dolorosa necessità da mettere in campo quando non ci sia alternativa.
Questa è una verità che chiunque abbia un minimo di senso comune, ed abbia fatto una vita normale, non ovattata, conosce benissimo. Si comincia nel cortile della scuola, a comprendere come sia necessario non mostrarsi deboli nei confronti dei bulli; e che nel caso in cui i nostri amici siano in pericolo, bisogna correre in loro soccorso, senza ripensamento alcuno. E anche se si è cresciuti in un ambiente privilegiato, e nella propria scuola non c’era un cortile, o non c’erano bulli, basta aver letto una sola volta il libro Cuore per avere un senso esatto di cosa significhi quell’articolo costituzionale. Chi ripudia la guerra è come Garrone, il gigante buono, che però quando il malvagio Franti se la prende con uno più debole, lo gonfia come la proverbiale zampogna.
In campo internazionale, essere pacifici ed essere pacifisti sono due atteggiamenti totalmente opposti.
Il primo, se accompagnato dalla consapevolezza negli altri che all’occorrenza si è pronti a difendersi, porta alla pacifica convivenza tra i popoli. Il rischio di riportare gravi danni in caso di aggressione spinge infatti maggiormente nella direzione del dialogo, dello scambio, del commercio e della ricerca del massimo reciproco vantaggio. Ne sono prova evidente i popoli europei, che si sono reciprocamente scannati per secoli, fino a trovare un equilibrio di mutua convenienza che li ha addirittura spinti ad abbattere quelle frontiere per le quali sono morti milioni di uomini.
Il secondo, invece, è un invito a qualunque delinquente geopolitico per esercitare la propria strategia di sottomissione violenta, per ottenere senza dare alcunché in cambio. Nel caso dell’Europa e dell’Occidente, non sono i gessetti colorati, le marce per la pace, gli appelli alla qualunque, che mantengono le nostre vite nella mai storicamente sperimentata stagione di pace che abbiamo la fortuna di vivere; quanto il calmo ma vigile Garrone rappresentato dalle nostre forze armate combinate.
L’uscita della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, rivolta a rimandare – contro l’evidenza dei fatti e gli impegni internazionali assunti – l’aumento di spese militari nel nostro paese fino al 2% del PIL è nella migliore delle ipotesi di un’ingenuità disarmante, se non di un’incosciente leggerezza. Un’ingenuità o un’incoscienza che lascia a bocca aperta nel momento in cui, rendendosi conto del pericolo rappresentato dall’attuale politica russa di aggressione, paesi indefettibilmente neutrali come Svezia e Finlandia chiedono di entrare nella NATO.
Costruire una politica militare credibile, specie con l’accelerazione del passo dell’evoluzione tecnologica degli ultimi decenni, richiede un investimento consistente e di lungo termine che non sfugge a chi abbia un minimo di competenza nel settore. Le guerre di domani, specie quelle che vogliamo evitare, richiedono oggi uno sforzo consistente nei settori dell’elettronica, dell’informatica, della robotica, dell’intelligenza artificiale, molto diverso dalle logiche di illusorio disarmo come mezzo per ottenere la pace. L’Ucraina, paese aggredito, è lì a ricordarcelo con il proprio sangue, ogni giorno, da quasi due anni.
E invece il dibattito politico è animato da dichiarazioni che contrastano con tutto questo, che vogliono infantilmente ignorare la necessità del Garrone grande e grosso che veglia su di noi, mentre rimaniamo a giocare con i nostri gessetti arcobaleno sul tavolo del nostro lussuoso asilo privato.
È un attimo, e dall’amato capolavoro deamicisiano, ci ritroviamo proiettati in quello di Lewis Carroll, in cui un’Alice svampita rotola giù nella tana del bianconiglio, rimanendo inebetita a guardarsi intorno, incapace di fare i conti con la nuova ed inaccettabile realtà. Intanto, un gatto mannaro sorride famelico dal ramo di un albero, pronto a piombarle addosso, e la nostra protagonista non ha neanche la prontezza di spirito di ascoltare i saggi consigli di quelli che le sembrano Cappellai Matti, i quali le urlano nelle orecchie è tardi, è tardi, è tardi.