C’è un luogo in mezzo all’Europa che occupa il centro dell’immaginario collettivo di più generazioni di ragazzini.
Budapest, la città una e bina, quella con il Parlamento in riva al fiume. Quella in cui circola una barzelletta che dice che l’edificio dell’assemblea nazionale ha una cupola perché ogni circo ne ha una.
Uno scherzo raccontatomi nell’ultimo viaggio di lavoro da scapolo, quando ebbi la fortuna di visitare questa capitale della cultura europea prima che anch’essa si uniformasse all’Occidente. Per pura avventura, erano anche i giorni in cui l’Ungheria entrava ufficialmente nella Comunità Europea, tanto che entrammo mostrando il passaporto e ricevendovi il timbro, ed uscimmo con i sorrisi degli agenti di frontiera che si ritrovavano a non avere più un confine da sorvegliare.
Fu un viaggio sentimentale sotto molti aspetti, durante il quale feci lunghe passeggiate sulle rive del fiume ed andai a combattere una guerra simulata dentro una ex caserma sovietica, giocando una partita di paintball. Ma il momento più toccante per me fu quello della lunga camminata per le strade del centro che lasciava il passo alla periferia, verso un luogo mitico dell’infanzia, via Paal.
Una parte di me sperava di trovare il mitico steccato del Campo, e dentro lo steccato le cataste di legna ed i cumuli di sabbia sui quali i ragazzi della via Paal, Boka e il suo calamaio, Csònakos e i suoi fischi, Weisz e gli altri della Società dello Stucco, il piccolo e fragile Nemecsek, combatterono e vinsero la loro battaglia contro quelli dell’Orto Botanico, le Camicie Rosse.
Che il sogno fosse vano, lo sapevo fin dalle ultime pagine del capolavoro di Ferencz Molnàr, nelle quali il Campo, dopo essere stato così strenuamente difeso, si prendeva sulle spalle, per sempre, un palazzone in affitto. Ma andare in quel luogo, cercare nelle luci di quel tardo pomeriggio primaverile i volti immaginati di quei piccoli eroi, è stato un cerchio chiuso, un tributo a quelli che in ogni tempo hanno combattuto per difendere la causa della propria libertà.
E per la propria libertà combatterono i ragazzi di Budapest tra il 23 ottobre e l’11 novembre 1956, battendosi da leoni per le vie del centro. I malvagi fratelli Pàsztor arrivarono a bordo dei carri armati sovietici, schiacciandone impietosamente l’eroismo e costruendo sul loro Camposanto un brutto palazzone in affitto, fatto di mattoni d’oppressione.
In Italia ci fu chi saltò sul carrarmato del vincitore, affermando che l’invasione sovietica aveva salvato la pace e plaudendo al Grande Fratello d’Oriente. In quel gruppo, si distinse un giovanotto ventottenne, lesto ad inneggiare al sol dell’avvenire ed immemore sia della famiglia liberale, che dell’imbarazzante militanza nei Gruppi Universitari Fascisti. Si mormorava addirittura che fosse un figlio illegittimo del re di maggio Umberto II di Savoia – e qualche fisiognomica affinità con l’augusto padre putativo può forse essere rintracciata con un po’ di fantasia.
Il giovanotto fece comunque fortuna, e che fosse un Savoia di sghimbescio, un liberale pentito, un fascista ma solo per teatro, o un seguace del totalitarismo di Russia, poco ha importato. È diventato Presidente della Repubblica, e addirittura, quasi a compensare il regnum interruptum del mormorato genitore, è stato eletto per un secondo mandato – primo caso nella storia della Repubblica.
Ora che dopo quasi un secolo prende la via dell’aldilà, conoscerà prima di tutti noi il destino che attende quanti, passati sotto ‘a livella del principe De Curtis, si apprestano a scoprire il significato dell’eternità.
Che tu sia un angelo o un diavolo, cantava Ligabue, ho tre domande per te.
Andando verso le porte del Cielo, lo senti il silenzio strano dei carri armati?
Le vedi, lassù, quelle cataste di legna con le bandierine della libertà?
E soprattutto, in cima alle cataste, li vedi quei ragazzi ungheresi?