Periodo di Oktoberfest, originali o “replicate” in giro per il mondo: tutti i puristi del luppolo sanno che la birra spillata “a caduta” è sempre la migliore, e la cerimonia di apertura ufficiale della kermesse bavarese prevede proprio l’inserimento nel barile della spina a caduta con la beneaugurante frase “O’ zapft is!” (“È spillata!”), dando l’avvio ai festeggiamenti.
Tuttavia, la praticità dei teutonici e la necessità di semplificare la distribuzione dell’aurea bevanda senza dover sollevare i barili ha stimolato gli intelletti che, con il tempo, hanno inventato numerosi aggeggi per spillare la birra lasciando a terra più comodamente le botti, sfruttando variamente vasi comunicanti, depressioni, pressioni, tubi e pompette per fare in modo che i boccali venissero riempiti a comando con costante afflusso.
La vera innovazione però fu ideata da questo signore, figlio di orologiaio e a sua volta orologiaio e inventore: una valvola per la regolazione del flusso di anidride carbonica compressa che, limitandone la pressione, consentiva la spillatura anche lasciando le botti in cantina e aggiungendo un po’ di schiuma aggiuntiva per il “cappello” che disseta – solo alla vista – gli amanti della birra.
La micro meccanica aveva da sempre appassionato (Johann) Heinrich che, nel tempo, decise di metter su una bella azienda di produzione, dedicandosi proprio alle valvole per gas compressi, con specifica attenzione all’ossigeno e all’anidride carbonica e, soprattutto, tramandando l’azienda Dräger & Gerling (nel frattempo fondata con il socio Carl Adolf Gerling) alla progenie, specializzandosi appunto in sistemi di spillatura della birra, mercato decisamente florido in terra germanica e per l’esportazione in America.
La tecnologia di gestione dei gas compressi tuttavia ha stimolato la famiglia Dräger sotto vari aspetti: in collaborazione con il figlio Bernhard (ritratto con il capostipite nella foto d’epoca qui sopra) ed il nipote Otto Heinrich, estesero il campo di attività, presentando un oggetto che si rivelerà molto utile.
Nel 1907 infatti brevettarono “Ur-Pulmotor”, l’antesignano dei ventilatori polmonari automatici portatili. Passando da successivi perfezionamenti, le varie versioni consentivano la ventilazione inizialmente a ritmo dettato da un orologio, successivamente sfruttando i livelli di pressione/depressione nelle fasi respiratorie del paziente (quindi adattandosi in maniera ideale al ritmo di inalazione, non sempre costante); a seguire, aggiunsero le funzioni di umidificazione della miscela inalata, contenuta in piccole bombole a pressione, eliminando così anche la funzione di ripurificazione dell’espirato e separando i due circuiti (Ossigeno/CO2). L’apparato veniva azionato anche a pedale, ad uso delle sale operatorie o sul campo, e risultò, nei suoi principi di funazionamento, particolarmente longevo, oltreché “just in time” in un periodo storico in cui le malattie che rendevano necessaria la ventilazione polmonare erano tristemente piuttosto diffuse.
Furono realizzate versioni portatili e da campo (per uso nelle miniere, dei vigili del fuoco, in ambito marittimo), nonché predisposte per il trattamento neonatale e pediatrico, certamente contribuendo alla storia della medicina, con circa dodicimila macchine “Pulmotor” in esercizio al 1946.
Le due Guerre mondiali ovviamente costituirono occasione di diversificazione: l’uso estensivo di gas nella Prima resero necessari trattamenti repiratori per i soldati coinvolti, aumentando la domanda di ventilatori polmonari; la Seconda vide coinvolta l’azienda nella parziale conversione alla produzione di maschere antigas per il Reich, ma non solo.
Poco sopra abbiamo infatti accennato alla ripurificazione: problema antico quanto il desiderio di esplorare il mondo sottomarino, che la dinastia Dräger non mancò di caratterizzare. Il respiratore Dräger diventò infatti dotazione standard per i militari tedeschi, consentendo l’immersione dei subacquei e la respirazione attraverso un respiratore/purificatore che filtrava l’espirato attraverso reazione con la soda caustica, rigenerando l’ossigeno necessario all’inspirazione. L’idea non era nuova, perfino l’autarchica industria aveva dotato i prodi della Decima di autorespiratori, anche nell’intento di potenziare la componente “Gamma” dei Guastatori e Incursori Subacquei, protagonisti di eroiche imprese.
Ricordiamo i “Maiali”, praticamente dei siluri a lenta corsa pilotati in immersione da due Incursori a cavalcioni fin sotto la chiglia delle navi nemiche che, una volta giunti all’obiettivo, li agganciavano all’opera viva e si allontanavano pinneggiando dopo aver programmato con un timer l’esplosione.
A dire il vero, anche i tedeschi concepirono, nel periodo delle “armi della disperazione”, quando la sconfitta era ormai preannunciata, simili dispositivi, i siluri “Neger” e “Marder”, costituiti da un gruppo vettore realizzato con un mini-mini sommergibile in cui il malcapitato pilota era praticamente sigillato all’interno, e uno o due siluri convenzionali agganciati alla chiglia, pronti per il lancio “a vista”. Invero, questi dispositivi si rivelarono ben poco efficaci, e restarono di fatto sconosciuti anche alle truppe angloamericane fino a quando, sul litorale di Anzio subito dopo lo sbarco (fine gennaio 1944), non ne venne ritrovato uno integro, ancora agganciato al suo siluro, e con il povero pilota rinchiuso all’interno e morto per asfissia.
L’arma, proposta già nei primi anni di guerra, fu ritenuta all’epoca “inutile”, ma il progetto fu riesumato sul finire del conflitto, proprio alla ricerca di soluzioni “geniali” per salvare il salvabile. I piloti erano dotati di autorespiratore ad ossigeno (ARO) modello Dräger, la cui tecnologia, di fatto è sopravvissuta fino agli anni ’60, progressivamente sostituita dagli ARA – autorespiratori ad aria – tuttora in uso in ambito sportivo e professionale.