Ci siamo gustati la serenità e ci siamo accorti del suo valore solo adesso, quando la strage per mano di Hamas e la reazione di Israele hanno fatto risuonare il “cin cin” dei calici degli assetati di sangue.
E’ così che si è dato inizio alla stagione della paura. L’evacuazione del Louvre, della Reggia di Versailles e della ciclopica stazione ferroviaria della Gare-de-Lyon sono soltanto il primo stuzzichino che il Vecchio Continente è costretto a trangugiare.
L’insegnante ucciso a coltellate e i tanti feriti al liceo parigino di Arras, i due svedesi crivellati di colpi di kalashnikov a Bruxelles ieri, il folle fermato a Torino poche ore dopo: le aggressioni al grido di Allah Hakbar sono semplicemente le bollicine di un drink che non avremmo mai voluto esser costretti a sorseggiare.
Avevamo dimenticato la sensazione di angoscia che ci ha accompagnato in anni difficili e non abbiamo considerato le minacce e le insidie che continuavano ad ardere imperturbabili sotto la cenere, pronte a rianimarsi al primo alito di vento.
I pericoli incombenti sono ancora percettibili soltanto da chi è troppo sensibile all’angoscia e da chi – magari addetto ai lavori o soggetto con pesanti responsabilità pubbliche – sa qualcosa che non si può dire o che è opportuno esaminare a fondo prima di assumere qualsivoglia iniziativa.
Dalle nostre parti è balenato un segnale di emergenza e a farlo saltar fuori è stato il Ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha rappresentato (per poi smentire) l’inopportunità di dar luogo alle cerimonie in occasione della Festa delle Forze Armate prevista ogni anno per il 4 novembre.
Chi ha in mano la macchina bellica nazionale dice “ho l’obbligo di pensare al peggio” , ma forse quel dovere lo dovrebbe tenere in serbo anche ed ancor prima il suo collega che siede al vertice del dicastero dell’Interno.
Il timore di attacchi terroristici prevale sulla paura di un conflitto militare. I gesti folli non hanno alcun bisogno di schieramenti, munizioni e rifornimenti. Non richiedono valutazioni strategiche o considerazioni sulle possibili reazioni avversarie. Il terrorista parte dal presupposto formidabile di non avere nulla da perdere e di poter colpire quel che gli pare lasciando al bersaglio ogni interpretazione del perché dell’obiettivo o del significato di questa o quella azione.
Gli scontri armati hanno una loro prevedibilità e – pur fulminei – permettono il lusso del contrattacco. L’azione suicida toglie a chi lo subisce anche la “soddisfazione” di replicare contro chi ha seminato dolore e angoscia.
Qualunque pazzo può nobilitare la sua profonda nullità strillando slogan islamici e autodichiarando la propria appartenenza all’Isis o a qualsiasi altra organizzazione di cui l’interessato ha forse solo lontanamente sentito parlare. Se il suo operato avrà mai successo, la formazione terroristica non esiterà a piangere il proprio miliziano “honoris causa”. Nel caso di un flop nessuno si prenderà la briga di assumersi la paternità di una figuraccia…
E’ una dinamica vecchia come il mondo, mutuata persino nell’universo digitale dove l’etichetta Anonymous viene appiccicata da tanti cani sciolti alle incursioni hacker ad Istituzioni, enti e imprese, nonostante il sodalizio sia estraneo all’accaduto.
Il “franchising” dei brand famosi nel contesto criminale funziona e lo standard di prestazione (tipico di quel contratto) non è imposto per entrare a far parte di una certa catena commerciale o di servizi, ma si traduce nel riconoscimento ex post di un atto che merita una sorta di “denominazione di origine controllata”.
Il pesantissimo clima dell’atmosfera terroristica affligge anche il ciclo biologico della democrazia. Tra gli effetti collaterali, infatti, saltano fuori provvedimenti d’urgenza a limitare la libertà personale e a giustificare restrizioni. Meno è efficiente la macchina dell’intelligence, più diventa necessario far scattare le più diverse forme di “coprifuoco” immaginando un significativo contenimento del rischio…
Il prendere posizione per una o l’altra fazione ha sempre potenziali conseguenze e i terroristi possono certo cogliere l’occasione da dichiarazioni di leader politici stranieri, ma in realtà chi scommette sulla paura colpisce a casaccio perché proprio la scelta randomica del bersaglio incrementa il panico e lo sgomento internazionale.
Se si temono attacchi, e il discorso vale a giro d’orizzonte, ci si chieda perché per anni non si è mosso un dito per contribuire ad una soluzione pacifica ed equa di tante negazioni del buon senso e della semplice “umanità”. Questo esame di coscienza dovrebbe partire anzitutto dalle Nazioni Unite fino ad arrivare a tutti i Paesi occidentali che con la loro apatia hanno spalancato la porta a chi gode di questa instabilità (Russia e Cina) e a chi sotto il profilo tattico sa di poterne trarre beneficio e soffia sul fuoco (Iran e dintorni).
I terroristi possono contare sulle tecnologie più di quanto se ne possa avvalere il lato dei “buoni” che ne hanno sottovalutato il ruolo e le potenzialità. A prescindere dalle opportunità di impenetrabile comunicazione interna ai sodalizi criminali, chi si rende protagonista di barbarie sa perfettamente che Internet, i social e le piattaforme di messaggistica istantanea sono il miglior megafono di cui poter disporre per recapitare – attraverso immagini o video anche falsi o fuori contesto – il terrore a domicilio e per far capire che può arrivare ovunque e non solo virtualmente.