Socrate, il più grande pensatore di tutti i tempi, morì avvelenato… Lo si tacciava, tra le altre cose, di corrompere i giovani perché di fatto insegnava loro, attraverso l’arte del domandare (la maieutica, o “arte della levatrice”), a mettere in discussione le loro idee, a non considerare come certezze le proprie convinzioni. In pratica li educava alla libertà di pensiero e questo tipo di libertà, da sempre, spaventa i poteri forti, siano essi politico economici o, in chiave moderna, tecnologici.
Ad oggi, qual è il posto del dubbio in una società in cui sfoggiare certezze sembra essere diventato un valore assoluto? In cui le differenze, più che ascoltate vengono frettolosamente etichettate e poi sopite, o polarizzate? Personalmente sarei felice di ascoltare più spesso espressioni come “dipende” o “non saprei” …
Fatto salvo quando il dubbio assale noi stessi in termini di capacità e identità, fino a diventare mancanza di autostima, sfociare in una depressione clinica o cronicizzarsi nella più comune “sindrome dell’impostore”, in generale un livello di dubbio “sufficientemente buono” ha comunque un potere trasformativo, sia a livello personale, sia collettivo. Eppure, oggi l’esercizio del dubbio sembra evaporato, se non addirittura temuto e contrastato, specie nei social. Come possiamo quindi rieducare alla “nobile arte” del dubitare affinché faciliti il dialogo (con noi stessi e con gli altri) e ci permetta di crescere, e non deflagrare in una confusione disorganizzata o, peggio, nel relativismo più assoluto?
Anche Cartesio, molti secoli dopo, pose il dubbio all’origine della conoscenza e della saggezza, ritenendo che solo dubitando sistematicamente di ogni cosa (Dubbio metodologico) potessimo giungere alla Verità. L’unica cosa fuor di dubbio era il fatto stesso di star dubitando che, quindi, ci definiva come esseri esistenti in quanto “pensanti” (Cogito, ergo sum).
Più di recente Psicologia e Neuroscienze ci hanno insegnato che la nostra mente ha bisogno di “chiusura cognitiva”. In pratica, più che di “verità”, dato che ne esistono molte, abbiamo strutturalmente bisogno di equilibrio, di logica tra cause ed effetti. Abbiamo bisogno che, nel nostro personale sistema di riferimento, “i conti tornino”. Perché questo consente al nostro cervello di rassicurarsi, immaginando di avere un minimo di controllo predittivo sugli eventi esterni e dunque– in ultima analisi – risparmiare energia, cioè glucosio. Ebbene si, in fondo siamo “macchine”, per quanto sofisticate e governate da processi biochimici altamente complessi.
Tuttavia, se da un lato abbiamo bisogno di comprendere e prevedere, cioè, di “senso”, nel significato più ampio del termine, per il nostro equilibrio omeostatico, dall’altro abbiamo bisogno di dubitare, per rompere questo equilibrio e progredire, superando i limiti delle nostre stesse concezioni. Questo è ciò che accade da millenni, perché siamo “sapiens”, esseri viventi, consapevoli di esistere perché in grado di pensarsi. Ma oggi, dov’è finita la nobile arte del dubitare? Ci concediamo il tempo per mettere in discussione le nostre stesse idee o temiamo un frettoloso giudizio di indecisione o debolezza?
Sui social network, infatti, assistiiamo spesso, non tanto a scambi dubitativi di reciproche opinioni, con l’atteggiamento curioso di chi, ascoltando attentamente, esplora il mondo altrui in cerca di nuove verità, bensì a scambi di certezze assolute. Spesso il tono della discussione si accende sfociando nel conflitto e alla fine ne escono tutti perdenti: lo scopo di una discussione, del resto, non è solo la scoperta di novità ma anche, a livello superiore, quello di apprendere l’arte del discutere. L’oggetto del contendere potrebbe rappresentare un mero espediente che, attraverso la discussione, permetta di conoscersi meglio e di imparare a dialogare, creando insieme valore per tutti. Per questo motivo, al di là del progresso generale, il dubbio resta comunque un prezioso alleato per ognuno di noi: sia per acquisire meta competenze, sia per tenere giovane la mente. Come fosse una sorta di brain fitness quotidiano, esercitarsi sistematicamente a rimettere in discussione le proprie idee al cospetto delle conoscenze e opinioni altrui, potrebbe aiutarci a prevenire l’invecchiamento cerebrale e mantenere vivo lo spirito. Come possiamo riuscirci senza perderci nei meandri delle possibilità?
In ogni professione basata sul dialogo come il coaching, due competenze sono essenziali: saper fare le “giuste” domande e saper ascoltare attivamente. L’arte del domandare, di socratica memoria, aiuta la persona a mettere in dubbio i propri ragionamenti e la propria “mappa”, per così dire, del territorio. L’ascolto attivo presuppone la capacità di osservare e restituire in forma di domanda, esattamente le parole utilizzate dal nostro interlocutore, unico spiraglio per intravedere il suo personalissimo sistema di riferimento. L’ascolto attivo e non giudicante consiste soprattutto nel porsi con genuina curiosità al cospetto di ciò che l’altro esprime, astenendosi da formulare ipotesi e opinioni, per poi indagare il suo mondo, attraverso domande che rispecchino quanto ascoltato. Si tratta, cioè di sviluppare un atteggiamento da “esploratore”, anche verso ciò che accade a noi stessi in prima persona, più che un atteggiamento da “guerriero”, pronto difendersi e aggredire potenziali minacce al proprio sistema di riferimento.
Nel coaching, il professionista non ritiene (o almeno non dovrebbe…) di possedere verità o certezze assolute su come un individuo possa evolvere o sul perché si comporti in un certo modo. Si limita a osservare e ascoltare con attenzione il cliente; come per indossare i suoi stessi occhiali e vedere il mondo dalle sue personalissime lenti. Si tratta di un’abilità essenziale per poter accompagnare il pieno sviluppo della persona, senza interferire: un modo di fare e di essere che si apprende; lavorando su di sé e cambiando il proprio mindset esercitando, appunto, l’arte del dubbio.