Con l’arrivo dell’autunno incombe gravoso “IL CAMBIO DI STAGIONE”, l’attività indiscutibilmente più temuta da madri di famiglia e donne in generale dato che, per qualche arcano motivo, tale mansione pare essere intrinsecamente legata all’universo femminile… Già questo basterebbe per aprire un capitolo a sé, circa le differenze di genere nell’organizzazione degli spazi e nella supervisione delle attività domestiche, ma onde evitare interminabili discussioni tra generi, preferiamo orientarci su un’analisi più metaforica del costrutto: i significati impliciti nel riordinare gli armadi, togliendo i vestiti che non sono più adatti alla stagione entrante per far spazio ad abiti più congeniali.
L’abbigliamento fisico in parte riflette il vestito con cui copriamo o meno l’Anima: così come dismettiamo magliette ormai troppo corte o leggere in favore di qualche maglia più coprente e calda, accade che, con il trascorrere delle stagioni della vita, si debbano lasciar andare abiti mentali oramai obsoleti e non più adatti agli anni che ci attendono. Si tratta in verità di elaborare ogni volta un piccolo “lutto”, un abbandonare quelle abitudini che ci hanno accompagnato lungo il percorso, rassicurandoci e permettendoci di arrivare fin lì, ma che ad un certo punto non sono risultate più funzionali e ci hanno bloccato in un limbo tra passato e futuro, tra ciò che non siamo più e ciò che non siamo ancora. Un po’ come con un vestito che comincia ad andare corto o stretto perché siamo cresciuti, le alternative sono due: o cerchiamo di dimagrire per tentare di infilare gli agognati pantaloni che tanto ci piacevano, o semplicemente accettiamo di essere cresciuti e – con un filo di rammarico ma anche consapevolezza e gratitudine – decidiamo di lasciarli andare. Ecco, la gratitudine per ciò che è stato apre probabilmente la possibilità di transitare attraverso questi periodici momenti di cambiamento, alleggerendo il rimpianto e trasformandolo viceversa in energia creativa, utile a proseguire la risalita. Un po’ come quando decidiamo di incamminarci su un sentiero di montagna desiderosi di arrivare in vetta, ogni tanto è utile fermarsi a riposare, guardarsi indietro e apprezzare il tratto di strada fin lì percorso. Perché spesso, se teniamo solo lo sguardo fisso sulla meta, questa ci apparirà comunque lontana, non valorizzando in questo modo ciò che fin qui abbiamo fatto, rischiando così di minimizzare i risultati viceversa ottenuti, con costanza e dedizione, un passo alla volta.
Parafrasando il celebre “primo assioma della comunicazione” di Watzlawick (Non si può non comunicare), dobbiamo quindi ricordare a noi stessi che non si può non cambiare: tutto nella vita è cambiamento… anche tentare strenuamente di resistervi, di fatto si traduce in un cambiamento, se pur in senso inverso rispetto al resto che, inevitabilmente attorno a noi continua ad avanzare. Si tratta quindi, con la stessa inevitabile ciclicità che accompagna il cambio delle stagioni, di ricordare che a ogni foglia caduta segue un germoglio, a ogni “morte”, segue una “rinascita” e che la Vita è un continuo incessante processo di trasformazione. Forse, la chiave consiste nel viverlo con la stessa leggerezza di una foglia cadente, precaria certamente, come ricorda Ungaretti, ma comunque creativa e “danzante” nel suo incedere verso terra. Abbracciare l’idea del “sufficientemente buono” come paradigma esistenziale, rifuggendo da un ideale di “perfezione” che di fatto si traduce nella peggiore delle imperfezioni. I greci la chiamavano katametròn, la “giusta misura”. Non un passivo accontentarsi quindi, ma un’armoniosa e costante oscillazione tra la ricerca del nuovo e la gratitudine per ciò che è stato; tra intimo desiderio di cambiamento e strutturale resistenza allo stesso. Perché ciò che è stato ci rappresenta, come un abito, e cambiare comporta uno sforzo, come il cambio di stagione, consapevoli però del fatto che la miglior versione della perfezione consiste in una adeguata e inimitabile imperfezione, la nostra.