Viviamo in un’epoca in cui i social network hanno trasformato la nostra vita quotidiana, diventando moderne Skinner Box, le cui dinamiche ci rendono ratti alla ricerca frenetica di gratificazione. Questo fenomeno, che potrebbe essere battezzato come “tossicità dei like”, si configura come uno dei lati oscuri della nostra connessione al web.
La Skinner Box che prende il nome dall’omonimo psicologo che la ideò negli anni ’30, quale dispositivo per studiare il comportamento degli animali, trova oggi una sua reinterpretazione nei social network. Queste piattaforme modellano infatti il nostro modo di fare attraverso feedback positivi, creando una dipendenza dalla gratificazione online e dando vita a un circolo vizioso. L’accumulo di like diventa una sorta di guadagno, come fosse una valuta sociale che misura il nostro valore e la nostra accettazione nella comunità virtuale. Questa costante ricerca di validazione crea un ambiente altamente competitivo, alimentando l’atomizzazione sociale e influendo negativamente sul nostro benessere generale, poiché troppo spesso induce sentimenti di solitudine, spingendo le persone a concentrarsi sulla cura dell’immagine online a discapito dell’autenticità e delle relazioni reali.
I social network sfruttano proprio queste nostre vulnerabilità psicologiche e creano un’esperienza coinvolgente, progettata per massimizzare l’attenzione. L’algoritmo dietro queste piattaforme alimenta il desiderio di interazioni e consensi, creando questa ambigua dipendenza digitale, con impatti significativi sulla nostra salute sociale e mentale.
E questo è un punto che dovrebbe stimolare la nostra massima attenzione. Ogni interazione sul web viene infatti tracciata e utilizzata per modellare il nostro comportamento d’acquisto, alimentando un sistema di marketing basato sui big data (insiemi massivi di informazioni apparentemente non correlate tra loro). Il web è di fatto un ambiente di controllo, dove ci si muove spesso ignari delle catene invisibili che ci legano a una realtà distorcente e guidata da interessi commerciali. I social network fungono quindi come qualcosa di molto simile a una sorta di Skinner Box digitale, in cui gli utenti sono costantemente bombardati da notifiche, feedback positivi e gratificazioni istantanee, creando una dipendenza da interazioni online. Così la danza dei “MI PIACE” produce l’effetto di rinforzo positivo che il Dottor Skinner forniva alle cavie nella gabbia, per validare l’ipotesi che ciò potesse indurle a uno comportamento predeterminato.
Le piattaforme sociali utilizzano algoritmi sofisticatissimi per analizzare l’atteggiamento dei consumatori, raccogliendo dati preziosi sulle loro preferenze e abitudini. Il marketing digitale sfrutta poi queste informazioni per creare strategie mirate, distillate proprio tra gli habitué dei social network. Gli annunci pubblicitari vengono personalizzati in base ai dati raccolti, mirando a suscitare emozioni e stimolare il desiderio di acquisto. In questo modo, gli utenti “digital addicted” passano dal ruolo di generatori di dati a quello di target ideali per le campagne pubblicitarie. Saranno infatti spinti inconsapevolmente ad acquistare prodotti o servizi, in una sorta di vita parallela che tende proiettarli in un sempre maggiore isolamento e che li rende veri e propri consumatori perfetti.
Come acrobati su un filo sottile, danziamo purtroppo tra la relazione virtuale e quella umana, rischiando di cadere nell’abisso del web. La nostra vita online è una danza sospesa sull’orlo, un equilibrio precario tra il desiderio di connessione e la vulnerabilità del mondo digitale senza confini. Quando la caduta arriva, scopriamo che la rete virtuale, su cui contavamo si dissolve, incapace di sostenere il peso della realtà. È un’esperienza travolgente, un salto nel vuoto senza apparente salvezza, che ci ricorda l’importanza di valutare ogni passo in questo circo ad alta quota che, tra illusioni e delusioni, fa perdere di vista la meraviglia.
E torna in mente quando da ragazzi, in comitiva, suonando la chitarra e cantando le canzoni di Battisti, si imparava a diventare membri della comunità umana e le foto non si ingrandivano coi polpastrelli, ma con le emozioni.