Giulia, ma anche Maria Rosa, Carla, Anna, Silvana, Eleonora e tante altre: cento da inizio anno, di cui una decina under 30, spesso colpevoli di essere “troppo” per chi le stava accanto. Troppo autonome, troppo intraprendenti o troppo intelligenti, spesso anche troppo belle, per essere libere di scegliere. Le donne uccise per mano di uomini, spesso fidanzati o ex compagni sono oramai un dato strutturale, una perversa “abitudine” bisettimanale alla quale rischiamo di assuefarci dopo i primi minuti di indignazione necessari a salvaguardare la coscienza. Cento da inizio anno e non le ultime, purtroppo.
Ma come si passa dal “ti amo” al ti uccido? Cosa c’è dietro? Tanta roba…
Non si tratta solo di stereotipi culturali relativi al genere e ai ruoli connessi, ma si tratta anche di confusione e fragilità identitarie, di pervasivo analfabetismo emotivo, diffusa incapacità nel gestire le frustrazioni, affrontare le sconfitte, aspettare; inoltre, di aspetti individuali attinenti alla personalità, mix unico di educazione, cultura ed esperienze. Il tutto, condizionato dalla specificità della situazione in essere e da una giustizia lenta all’inverosimile e non sempre adeguatamente efficiente. A ciò si aggiunge un sistema d’informazione che indugia spesso su dettagli di scarso rilievo rispetto alla comprensione del fenomeno o al tentativo di prevenirlo, riducendo un dramma sociale alla narrazione pedissequa di fatti che, a forza di essere visti, finiscono per diventare “normali”. Così facendo, la violenza viene sdoganata, quasi sdrammatizzata, autorizzata e accettata come tale.
In questo miscuglio letale di stereotipi, inefficienza istituzionale, contingenze del momento, emozioni non elaborate e identità fragili, cosa possiamo fare?
Innanzitutto, renderci conto che non esiste una soluzione, ma solo un insieme integrato di azioni che, realizzate in sinergia con le altre, produrranno, nel tempo, i risultati sperati. Tutti noi possiamo e dobbiamo fare qualcosa, ognuno nella propria sfera d’influenza, con i propri mezzi e opportunità, con pazienza e perseveranza, perché ogni cosa è “condizione necessaria ma non sufficiente”, diremmo. Come GENITORI o EDUCATORI possiamo, anche con i nostri comportamenti, smontare gli stereotipi, educare all’ascolto attento, all’uso accorto delle parole. Dobbiamo aiutare a sviluppare un linguaggio adeguato alla complessità dei tempi e al bombardamento di stimoli che riceviamo. I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo diceva Wittgenstein: il linguaggio, infatti, è il precursore della mente, perché ci ha permesso di apprendere a ragionare in termini astratti, per suoni, segni e simboli a cui abbiamo attribuito un significato condiviso, creando Cultura.
Se il linguaggio s’impoverisce, si impoverisce anche la capacità di ragionare e – per restare al nostro tema – di regolare le emozioni. Se non sappiamo dare un nome a ciò che proviamo, semplicemente lo esperiamo immediatamente, letteralmente senza mediazione, spesso picchiando o, peggio, abusando fino a uccidere. Del resto, l’incapacità di regolare gli impulsi è sia figlia di un’educazione priva di limiti, che ha impedito il confronto con un adeguato livello di frustrazione, sia figlia di un impoverimento del linguaggio che si è assottigliato al livello di neologismi costipati ed emoticon. Educazione affettiva e alfabetizzazione emotiva devono dunque diventare una disciplina a sé che mira a sviluppare sin da piccoli un livello d’intelligenza emotiva adeguata alla società liquida e interconnessa in cui viviamo.
Bastano una sana intelligenza emotiva e un’adeguata gestione della frustrazione? Certamente no, ma fanno la loro parte, all’interno di un lavoro di squadra in cui, dal canto loro, le istituzioni devono fornire contesti e strumenti adeguati ad accompagnare i cambiamenti necessari. La POLITICA dal canto suo deve garantire investimenti coerenti e in ordine di priorità a scuola e famiglie oltre a una giustizia efficace e rapida, affinché il problema venga aggredito a monte, prevenendone il più possibile lo sviluppo e a valle, confinandolo e punendolo ove questi si sia già manifestato.
Per concludere, abbiamo dati sufficienti, per quanto talvolta discordanti, in materia di violenza contro le donne e ne conosciamo a sufficienza i presupposti culturali e sociali. Tuttavia, il trend non sembra diminuire in modo rilevante. Ciò non significa che sia vano tutto ciò che si cerca di fare, ma che forse occorre farlo con un maggior livello di sinergia tra le parti, all’interno di un progetto più ampio, coerente e condiviso. Rinunciando ai protagonismi da un lato, quanto al disfattismo del tipo “tanto non serve a nulla” dall’altro, per agire ognuno nella propria sfera d’influenza, sia essa l’intimità di una coppia, il gruppo famiglia, la classe di una scuola o il governo di un paese. Più di questo, non credo si possa fare, consapevoli peraltro che, di qualsiasi intervento, vedremo i veri risultati solo tra molti, molti anni. I cambiamenti culturali e strutturali infatti richiedono tempo, e mal si adattano alla velocità di un “clic”.