Auto aziendale? Vacanza estiva? Abbonamento al circolo esclusivo? Macché, i datori di lavoro sono pronti ad offrire “chatbot” al proprio personale.
Chatbot? Spieghiamoci meglio.
Per chi è meno pratico di certe diavolerie tecnologiche, va detto che il chatbot è un software che simula ed elabora le conversazioni umane (scritte o parlate). E’ una soluzione che consente agli utenti di interagire con i dispositivi digitali come se stessero comunicando con una persona in carne ed ossa.
Ne esistono di varie “razze”. Possono essere semplici come i programmi rudimentali che rispondono a una semplice domanda (o “query” come direbbero gli addetti ai lavori) con una singola riga oppure possono essere sistemi sofisticati come gli assistenti digitali. Questi ultimi hanno capacità di apprendere, di migliorare e di evolvere per fornire “risposte” e reagire sempre con maggiore perfezione e personalizzazione grazie alle informazioni che man mano raccolgono ed elaborano.
Tra le tante demenziali iniziative basate sulla intelligenza artificiale adesso sono saltati fuori i “chatbot del benessere”, che i datori di lavoro vogliono appioppare al personale come “fringe benefits”.
Siccome ci sono sempre più lavoratori che si sentono ansiosi, stressati o depressi, qualcuno ritiene che possa esser utile mettere a disposizione un servizio virtuale da cui ricevere aiuto per la salute mentale.
In termini pratici questi chatbot sarebbero in grado di tenere conversazioni simili a quelle dei terapeuti. Le app per questo genere di benessere – che rilevano depressione, forniscono altre diagnosi o identificano le persone a rischio di autolesionismo – stanno aumentando a dismisura e vengono considerate di grande beneficio.
E’ il mercato a sollecitare la realizzazione di certe applicazioni perché “la domanda di consulenti è enorme, mentre l’offerta di fornitori di servizi di salute mentale si sta riducendo” secondo quel che afferma J. Marshall Dye, amministratore delegato di PayrollPlans. Come recitava la pubblicità del vecchio liquore “Stock 84”, “il signore sì che se intende”: è a capo dell’azienda che ha creato “Woebot” che secondo le stime sarà utilizzato da circa 9.400 datori di lavoro nel 2024…
Chi si stupisce sappia che Amazon circa un anno fa ha concesso ai dipendenti accesso gratuito a Twill, una “app” che utilizza l’intelligenza artificiale per monitorare gli stati d’animo degli utenti e creare un piano personalizzato di salute mentale. Twill offre giochi e altre attività a cui i lavoratori possono dedicarsi, nonché chat dal vivo con una specie di “personal trainer” umano.
I sostenitori di queste soluzioni infernali sono convinti che le “app” per la salute mentale riescano ad alleviare sintomi come ansia, solitudine e depressione. Il fatto che siano disponibili in qualsiasi momento consentirebbe di soddisfare le esigenze di persone che potrebbero non essere in grado di inserire la terapia tradizionale nella routine quotidiana o di permettersi economicamente uno psicoterapeuta “vero”.
Non c’è alcuna prova che questi programmini funzionino e nemmeno la certezza che non abbiano “effetti collaterali” imprevedibili. Non avendo competenze di quel genere mi limito ad osservare che molto banalmente incombe il rischio che informazioni private estremamente riservate – confessate alla “app” – possano essere divulgate o vendute. Ed è già abbastanza per starne alla larga…