Il mio ricordo che dura da settant’anni è quello del professore di italiano delle superiori a Camerino: il Prof. Mario Ortolani. Prima di raccontare quel bel periodo della mia vita da studente voglio presentare il mio professore con le parole di un suo grandissimo amico, un prete: Don Antonio Bittarelli insegnante di religione nello stesso Istituto Tecnico dove insegnava Ortolani ed io ero studente. Si perché Ortolani, comunista, aveva come amico inseparabile, proprio un prete: Don Antonio.
Su e giù per il corridoio grande del primo piano dell’Istituto tecnico per Geometri e Ragionieri. Incontriamo, Mario Ortolani ed io, la professoressa di scienze che sferruzza sotto lo scialle cenere e alza gli occhi per ripeterci distratta: sempre di poesia voi due. E Ortolani con il sorriso che ogni volta gli traversava le labbra: ma la poesia è un fatto serio, mica è come le scienze o come la matematica. Se cambia l’ordine degli addendi la somma non cambia, ma in poesia una sillaba e crolla tutto.
Con Ortolani si parlava di letteratura, di poesia e narrativa, quella corrente, sfornata anno per anno dalle case editrici che risorgevano o sorgevano dalla guerra con piccole collane tutte controllabili anche dalla provincia. Noi pure risorgevamo. Però ci ballottevamo tra le angosce (allora era parola nuova) sartriane, il realismo che un giorno Lucacks avrebbe elevato a corrente estetica e il personalismo mariteniano. Lui, Mario Ortolani, era sicuro nel neorealismo, poco interessato che scendesse da una filosofia, ed era proclive ad accettarne le conseguenze …. (Dalla prefazione al libro di Ortolani “Racconti” a cura di Angelo Antonio Bittarelli edito nel 1991).
Tra le parecchie decine di persone che nella vita mi hanno insegnato qualcosa, sia nel primo periodo formativo della scuola che nel secondo periodo del lavoro, quella che mi è rimasta sempre viva nella memoria è stato Mario Ortolani.
Ancora oggi che mi accingo a scrivere qualcosa su quel bel periodo quando frequentavo le superiori a Camerino 70 anni fa, l’unico fatto che mi ha lasciato una traccia indelebile in memoria è stato il rapporto avuto con lui a scuola come professore nelle sue particolari lezioni di letteratura e, al di fuori della scuola, quando mi conduceva per mano verso l’amore della poesia. Si perché con lui il rapporto non finiva in classe ma continuava saltuariamente anche nella vita di tutti i giorni di una piccola cittadina.
Siamo negli anni cinquanta e le nostre famiglie non se la passavano benissimo, anzi nemmeno bene, certamente non potevano pagarci i libri che dovevano essere letti, oltre quelli scolastici, per ottenere un buona cultura della lingua italiana. Allora Ortolani ci faceva prendere appunti in un grosso quaderno su cui ciascuno di noi copiava poesie, incollava ritagli di giornale, scriveva sotto dettatura parte delle lezioni del professore, in modo che rimanesse una qualche traccia delle sue lezioni da poter rileggere all’occorrenza.
Ci prestava anche qualche libro da leggere e restituire in breve tempo in modo che potesse girare velocemente nella classe (che per fortuna allora era composta di un numero sempre inferiore a 10). Anche questo modo di trasmettere cultura ci permetteva d’incontrarci al di fuori delle lezioni scolastiche.
Ricordo con piacere come ci aprì – spalancò – una finestra sulla poesia, forse perché era anche lui un poeta e così potemmo fare la conoscenza dei poeti contemporanei che allora erano gli “ermetici: Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Mario Luzi, Giuseppe Ungaretti. Ancora oggi mi risuonano all’orecchio quei brevi versi stracolmi di significato “Ed è subito sera”, oppure “M’illumino d’immenso”, che belli!
Il fatto che le due persone di grande cultura che mi insegnavano a conoscere gli esseri umani che avevano lasciato un’impronta perenne nella nostra vita: i grandi della letteratura e il Grandissimo della nostra religione cristiana fossero amici è una cosa che mi ha provato come la cultura unisce e non divide mai, per giunta nemmeno l’appartenenza politica riesce a mettere contro due persone di elevata formazione e preparazione intellettuale specialmente in un periodo dove il comunismo e la Chiesa ufficiale erano come il diavolo e l’acqua santa.
Stando così le cose, pensate che tipo di lezioni religiose facesse Don Antonio con la sua apertura mentale derivante dal livello culturale che aveva. Devo riconoscere che sono stato veramente fortunato ad abbeverarmi a due fonti meravigliose di sapere – due essenziali conoscenze come Ortolani e Bittarelli – per poter vivere in termini completi con cervello e spirito.
E vi assicuro che i risultati li ho ottenuti nell’applicazione pratica dei loro insegnamenti. Non posso chiudere questo ricordo di Mario Ortolani senza trascrivere la parte finale del libro “Racconti” dove racconta, nel capitolo “Immagini delle Marche”, una sua visione della regione dove era nato, viveva e stava insegnando.
In treno, da Roma a Fabriano, ho viaggiato un mese fa con una maestra già di ruolo, non ancora venticinquenne, non ancora innamorata, figlia unica.
Io, più viaggio, più mi rendo conto della grandezza di Gorkij. A tu per tu con la gente dei paesi più strani, in certi istanti lo senti proprio sfiorarti la pelle il momento più felice per giudicare gli apprezzamenti, le opinioni sui fatti del giorno, i preconcetti e le aberrazioni, la sua saggezza, non c’è libro che sappia meglio farmeli intendere, vagliare.
Ricordo che alla maestra, dopo un po’ che discorrevamo, chiesi che concetto avesse dei giovani d’oggi, perché ancora non s’era fidanzata, quale fosse l’uomo che sognava.
Il sugo delle sue risposte, in poche parole è questo: i giovani d’oggi sono vuoti, fatui; i loro travagli spirituali sono il frutto di uno sciocco snobismo, perciò insinceri e affettati; ostentano pose selvagge, trascurano di pettinarsi solo perché non sanno fare altro che scimmiottare Marlon Brando; vanno in delirio per “Lascia o raddoppia”, ma non conoscono Alvaro, Moravia, o Pratolini; se si iscrivono al MSI lo sbandierano a tutti i venti come ossessi.
Per questo non s’era fidanzata.
E l’uomo che sognava?
A questo punto si mise a ridere, perché forse le apparivano i profili dei giovinastri che la pedinavano.
Smancerosi o spacconi, questi proprio non li digeriva.
-Ce ne fu uno – disse – dopo due giorni che mi accompagnava, tentò di stringermi. Gli diedi un manrovescio, che ancora se lo ricorderà. –
-Vede – continuò – lievemente arrossita – una donna come me, che crede nella vita, nella casa, nei figli, certi gesti l’offendono. L’amore è una cosa seria; il matrimonio è un dono che si deve conquistare. Non le sembra giusto quello che dico? –
Il tono delle sue parole, nella grazie del volto acceso, appena reclino sulla spalla, mi sorprese. Notai sotto la maglia celeste, che la ingentiliva, un vigore sano, quasi una candida prepotenza. Dalle sue mani belle, poggiate ceree sul grembo, pareva raccogliesse il il segno d’una antica splendente nobiltà.
S’era fatto un silenzio assoluto tra i nostri sguardi. Il treno filava dritto contro alla sera.
-Come si chiama? – le dissi – all’improvviso.
Mi illuminò i suoi occhi, felice. Che le avevo chiesto tanto di segreto? Forse un nome impossibile?
-Mi chiamo Carmen – rispose.
Restai muto a contemplarla. D’un tratto si ravviò i capelli. Dalle linee fresche del suo corpo si schiudeva un odore sano di terra, di alberi: quella terra e quegli alberi, che io vorrei vedere esplodere nelle mie povere Marche.
Il libro è stato scritto più di 60 anni fa e le Marche hanno fatto passi da gigante in merito all’accrescimento della ricchezza per opera dell’industrializzazione, chissà se si sarà anche migliorata la cultura giovanile? Io non lo so perché non ci vivo più da allora. Lo voglio sperare.