Per scrivere dell’innovazione tecnologica fatta dall’Olivetti negli anni cinquanta per opera soprattutto di Elserino Piol, voglio presentare la parte del suo libro che ho vissuto assieme a lui. Analizzerò solo quelle di Olivetti nello sviluppo delle tecnologie dell’informazione, perché alla sua esperienza di “venture capital” non ho partecipato. Piol ha trascorso cinquant’anni della sua vita nell’informatica, nelle telecomunicazioni, in tutta l’innovazione tecnologica italiana: la sua esperienza professionale raccontata nel libro si riferisce all’Olivetti, l’azienda protagonista dell’Information technology italiana. Grazie a un punto di osservazione interno all’azienda e ad un rigoroso filo della memoria, ricostruisce la storia di quel periodo d’oro dell’azienda iniziato grazie alla lungimiranza di un imprenditore del calibro di Adriano Olivetti.
Prima di analizzare il suo libro, che sarà poi il filo conduttore per la conclusione dell’articolo, vorrei brevemente presentare Piol per chi non lo conoscesse. Aveva il titolo di studio di perito industriale ed inizia il lavoro in Olivetti nel 1952 come programmatore di macchine a schede perforate. Nel 1959 (anno in cui mi ha assunto) diventa direttore della divisione commerciale della Olivetti Bull per costituire la Divisione elettronica Olivetti], composta da 2000 persone, retta da Ottorino Beltrami e direttamente alle dipendenze dell’amministratore delegato Roberto Olivetti. In seguito il 75% della Divisione venne ceduto a General Electric, creando la Olivetti General Electric. Dopo un breve periodo trascorso in America tornò in Olivetti dove, grazie agli ottimi risultati del progetto Elea, fu nominato nel 1965 direttore marketing con responsabilità anche sulla pianificazione. Dopo il passaggio della Divisione Elettronica Olivetti a General Electric, fu lui a diffondere in azienda l’idea che il vero futuro di Olivetti fosse proprio nell’elettronica. Il nuovo amministratore delegato dell’Olivetti Carlo De Benedetti lo nomina direttore generale per le strategie e lo sviluppo. Grazie alla sua opera, Olivetti e AT&T firmano una storica alleanza: la compagnia statunitense diventa azionista di Olivetti con il 25%. Nel 1990 (quando io non ero più in Olivetti) intuisce le potenzialità del mercato delle telecomunicazioni mobili e fonda Omnitel. Non proseguo sulla sua presentazione perché non lavorando più assieme a lui lo persi di vista. Indirettamente seppi che dopo l’informatica e le telecomunicazioni si dedicò completamente al Venture Capitalism, ottenendo anche in quell’attività ottimi successi.
Prima di iniziare a descrivere per sommi capi come Piol racconta nel suo libro il sogno Olivetti di cui lui è stato protagonista e in parte lo ha realizzato, voglio raccontare come l’ho vissuto anch’io quel sogno. Intendo solo ricordare la figura di Adriano Olivetti e il modello di azienda da lui costruito anche dando vita alle idee illuminate di suo padre Camillo, ma soprattutto applicando, oltre che a se stesso, a tutto il suo management “l’orgoglio di essere dei sognatori”. Da suo padre aveva ereditato e messo in pratica il dictat datogli quando lo nominò direttore generale: “Tu puoi fare qualunque cosa per motivi di introduzione di nuovi metodi tranne licenziare”. Ma Adriano volle fare molto di più per costruire un’azienda che valorizzava la centralità dell’uomo, applicò sempre questa regola: “l’uomo e l’organizzazione [aziendale] devono costituire un equilibrio armonico … La sopravvalutazione dell’organizzazione porta a trascurare il valore delle persone”. Il suo costante impegno fu quello di far coincidere i bisogni dei dipendenti con quelli dell’azienda e per questo i servizi del personale Olivetti si adoperarono per organizzare una comunità comunicante, un tipo di management a porta aperta. Arricchì inoltre la sua attività imprenditoriale di concetti umanistici, urbanistici ed editoriali. Su questa innovativa base costituì per i dipendenti Olivetti l’assistenza sanitaria integrativa, il sostegno alla famiglia tramite assegni familiari, le attività ricreative culturali e formative, le case per i dipendenti, gli asili nido, le colonie estive, le scuole con relative borse di studio. Tutto ciò gli procurò feroci strali dal mondo industriale, soprattutto dai più noti e importanti imprenditori nazionali (in special modo quelli piemontesi). Anche la mia famiglia ha goduto del suo welfare system e posso testimoniare che all’Olivetti degli anni ’60 erano stati risolti molti dei problemi che assillano ancora oggi la nostra società civile per la carenza di servizi che rendano possibile – per esempio – alla donna di conciliare il suo impegno nell’ambito familiare con l’attività di lavoro esterno. Di fatto Adriano Olivetti si è spinto poi ancora molto più in là, ha inventato (almeno in Italia) il concetto di Corporate Social Responsibility. Ha configurato l’urbanistica del Canavese e non solo, chiedendo il contributo dei migliori architetti, urbanisti e designer a livello mondiale (Le Corbusier, Zevi, Sottsass) ed è stato un editore innovativo con le Edizioni di Comunità facendo conoscere in Italia i testi di Schumpeter, Taylor, Kierkegaard, Weil, Maritain, Maraini. Per fare dell’Olivetti anche un cenacolo di cultura ha chiesto la collaborazione di poeti (Giudici, Sinisgalli), scrittori (Volponi, Soavi), sociologi (Ferrarotti, Ottieri), letterati (Pampaloni, Fortini), economisti (Fuà). Spesso rivendico in pubblico il fatto che il mio responsabile del personale a Ivrea fosse Paolo Volponi: è un’esperienza di cui solo pochi si possono vantare. Normalmente i capi del personale devono avere – specialmente oggi – il pelo sullo stomaco e non la sensibilità di uno scrittore. Adriano Olivetti poteva farlo forse perché, come aveva promesso a suo padre, non ha mai licenziato nessuno. Trovo indovinato paragonare Adriano Olivetti a Steve Jobs, ambedue hanno perseguito il sogno di sviluppare l’elettronica per soddisfare un mondo invaso dalle tecnologie, il primo ha provato a realizzarlo ma non c’è l’ha fatta poiché i tempi non erano maturi, il secondo ha trovato tutte le condizioni favorevoli a contorno e quindi è riuscito ad attuarlo segnando un cambio culturale nell’epoca moderna. Una volta morto Adriano è venuto meno il suo impulso creativo e nel giro di una decina d’anni, anche a causa del cambiamento radicale delle strategie aziendali, l’Olivetti ha iniziato il suo inarrestabile declino che l’ha portata all’attuale coma irreversibile.
Il racconto della sua esperienza Olivetti Piol sul libro lo inizia nel 1952, dopo qualche anno nel 1959 inizia anche il mio percorso nella stessa azienda e nello stesso settore dell’information technology, Quindi la storia aziendale è comune fino al 1972, anno in cui io lascio l’Olivetti e la mia storia di lavoro si separa da quella di Piol. Il libro nei seguenti capitoli li ho vissuti anch’io allo stesso modo come li descrive lui e una gran parte addirittura in comune con lui:
Schede perforate e Olivetti Bull
L’Olivetti di Adriano
Olivetti nel 1960
Mi piace però concludere questo articolo riferendomi sempre al libro per indicare le cause che, secondo Piol, hanno determinato non solo la fine di un sogno ma la fine dell’azienda, la scomparsa dell’Olivetti, una delle aziende che, nel mondo, più avevano fatto dell’innovazione la propria bandiera. Egli sottolinea l‘assenza di una politica industriale nazionale e la miopia delle banche, condizioni che, pare, caratterizzano tuttora il sistema-Italia.
Descrive l’Olivetti come un’azienda italiana trattata nel mondo alla pari dalle grandi ‘major’ dell’informatica; un’azienda capace di creare valore aggiunto per il sistema paese; un’azienda che unisce l’obiettivo di fare business con un forte impegno nel contesto sociale in cui opera; un’azienda innovativa e capace di fare innovazione. Descrive il sogno perduto per tanti motivi e tante responsabilità, tra i quali emerge con forza l’assenza di una strategia industriale da parte dei vertici della politica italiana e la miopia del nostro sistema bancario: “Mediobanca e le banche italiane misurano gli asset in metri quadri di capannoni. Se nel mondo bancario qualcuno avesse capito che gli asset erano di gran lunga superiori ai debiti, la storia sarebbe andata in un altro modo. Ma il sistema bancario non aveva capito. E’ interessante notare come Piol, pur parlando della storia ormai chiusa di un’azienda che non esiste più, è più che mai di attualità, perché il contesto in cui si sono svolte le vicende narrate non è affatto cambiato. Come scrive nell’introduzione: “È sconcertante constatare come lo scenario italiano in cui Olivetti si è trovata a operare, e che tanto negativamente ha influito sull’azienda, non sia cambiato molto, almeno per quanto riguarda la sensibilità del sistema Italia e delle pubbliche istituzioni verso l’innovazione tecnologica, la ricerca, lo sviluppo e la competitività con gli altri sistemi Paese. Olivetti non esiste più, è scomparsa l’industria della chimica, siamo riusciti a mettere in crisi l’industria alimentare; rimane la Fiat, che ci auguriamo possa riprendersi. Nessuno può mettere in dubbio il fatto che, se l’economia italiana si trova nello stato in cui si trova, una ragione sta anche nell’assenza, nel suo tessuto industriale, di attività legate a tecnologie avanzate. L’Information technology è la più tipica tra le attività che potrebbero permettere all’Italia di ritrovare una sua collocazione nel club dei paesi industrializzati.