Il sottotitolo di questo libro è estremamente eloquente: “La magistratura tra mafia, politica e potere”.
Diego Tajani si era dimostrato un brillante e capace avvocato quando difese un gruppo di imputati che avevano partecipato allo sbarco a Sapri il 23 giugno 1857, immortalato nella famosa poesia di Luigi Mercantini, “La spigolatrice di Sapri”. Con la sua abilità oratoria riuscì ad evitare loro la pena di morte; tra di loro vi era il patriota e politico Giovanni Nicotera. Tajani nelle sue parole pose tutto il suo ardore; tutti gli imputati inviarono all’avvocato calabrese una lettera di ringraziamento. La sua difesa appassionata ed i ringraziamenti calorosi degli imputati fecero insospettire la vigilanza borbonica. Tajani, temendo rischi per la sua libertà, clandestinamente raggiunse il Piemonte dove incontrò Cavour.
Entrato in Magistratura, prima venne inviato a Napoli nel 1861, anche con l’incarico di Prefetto di Polizia per la città e la provincia; poi a Palermo come Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello nel 1868.
La Sicilia per molti settentrionali era popolata da selvaggi non ancora pervenuti allo stesso livello di civiltà. Non aveva superato la barbarie.
Tajani trovò una situazione complessa dove i confini tra legalità ed illegalità erano fluidi; la Polizia spesso era in rapporti poco chiari con la criminalità. L’uso dei confidenti spesso sconfinava nel favoreggiamento quando non nell’impiego degli stessi per risolvere in modo sbrigativo eventi da sottoporre alla giustizia (anche omicidi) o fomentare disordini. Insomma il diritto era un elemento non determinante per risolvere i problemi della giustizia, a tratti ignorato scientemente.
Una particolare ingiustizia era quella della detenzione illegale di detenuti che dovevano essere rilasciati. Volutamente, su indicazioni del Questore e del Prefetto, alcuni detenuti continuavano a rimanere in carcere per mesi nonostante l’ordine di scarcerazione della Magistratura. Altri venivano tratti in arresto senza prove o con prove costruite ad arte per intimidire, proteggere i veri responsabili del crimine od altro.
Il Procuratore mise, in suoi rapporti, sotto accusa la Polizia ed il 7 settembre 1871 ordinò l’arresto del Questore di Palermo, Giuseppe Albanese, in quanto ritenuto mandante di un omicidio. L’evento provocò, naturalmente, uno scontro con i Ministri della Giustizia e dell’Interno, ben documentati dall’autore che si è rifatto a fonti dell’epoca. Poco dopo Tajani venne via dal capoluogo siciliano. La stampa si schierò su fronti opposti e vi furono Commissioni ministeriali.
I capi della mafia riuscivano a pilotare le elezioni. L’Italia era stata unificata ma della realtà del Mezzogiorno e della Sicilia ben poco si sapeva a livello centrale: solo giudizi sommari e conoscenza superficiale.
Tajani fu uno dei primi magistrati a contrastare il potere mafioso e la collusione tra una parte della Polizia, alcune strutture dello Stato e la mafia. Evidenziò coperture e connivenze con il potere locale e nazionale. Terminò la sua carriera come politico ed avvocato non rinunciando a lottare per quanto aveva toccato con mano a Palermo. Rimase inascoltato ed isolato. La mafia era per tutti un modo di vivere, un carattere delle popolazioni locali, non una struttura criminale che si stava radicando sempre di più, anche in virtù di complicità con il potere.
Un libro che ci fornisce uno spaccato della Sicilia di quegli anni. Un saggio che fa riflettere quanto tempo si sia perso prima di tentare di debellare il potere mafioso e la sua connivenza con politici spregiudicati e criminali. Sono passati oltre 150 anni; dalla candela allo spazio all’intelligenza artificiale ma la mafia, cosa nostra per la realtà siciliana, è sempre lì, sempre viva, mutevole nei modi e con sempre maggiore potere in virtù della sua capacità di venire a patti con il potere e rimodulare i comportamenti con velocità superiore rispetto agli sforzi per combatterla. Occorre riflettere se già da prima dell’unità d’Italia lo Stato non è riuscito a debellarla.