Educazione o rieducazione, questo è il dilemma. Non c’è bisogno di amletiche perplessità per capire la sottile linea che separa invisibilmente quei termini, per comprendere che uno dei due è destinato a prevalere, per accorgersi che non c’è più tempo da perdere.
Spaventa il facile predominio del primo vocabolo, nobile in altri contesti, spaventoso tra le mura di una struttura penitenziaria.
L’educazione, infatti, è in realtà il tunnel in cui si infila il detenuto per piccoli reati che ne esce criminale grazie agli insegnamenti dei “decani” di quell’ambiente. La soglia della casa di reclusione è l’ingresso di un pragmatico Ateneo le cui materie hanno i docenti più qualificati, temprati da esperienze proporzionali al pedigree penale che li contraddistingue e pronti a performance maieutiche di rara efficacia. Le mura del carcere sono così una lavagna su cui ogni nozione è scolpita ad imperitura memoria in un percorso formativo che mira a tramandare tecniche e metodologie delinquenziali alle nuove generazioni di una razza dannata.
La rieducazione, invece, è o sarebbe un’altra cosa. Comincia con la spiegazione di quel che si è sbagliato, non con l’abrasione meccanica di eventi e al contempo dei rimorsi che viaggiano al seguito. E’ un passo indietro che consentirà di farne tanti in avanti, ma stavolta nella direzione giusta e senza pericolosi inciampi. L’esame degli errori e delle conseguenze dirette e indirette che questi hanno innescato deve portare ad una metabolizzazione delle buone regole del comportamento civile e della convivenza, alla revisione degli istinti e ad una lenta trasfusione di valori e di principi.
La (mala) educazione porta alla recidiva, alla reiterazione estremizzata di condotte reprensibili, alla voglia di misurare i nuovi limiti innalzati dalla cultura acquisita. La rieducazione – sull’altro fronte – induce a controllare le emozioni, a non covare rancore e rabbia, a indirizzare correttamente le proprie energie, a scoprirsi capaci di essere migliori. Migliori di prima. Migliori di sempre.
La rieducazione è il viatico del reinserimento, è l’anticamera di una vita volta a dimostrare di aver capito, a voler rimediare, a dar prova del cambiamento avvenuto, a rincorrere il perdono che non deve arrivare dagli altri ma da se stessi, a riconquistare la serenità che l’angoscia di aver sbagliato ha annullato.
Se lo Stato abdica e non riversa il dovuto impegno in questa delicata missione, la bestialità prende il sopravvento allontanando ogni possibilità di recupero sociale ed eutrofizzando il dilagante senso di malessere.
Le Istituzioni hanno l’onere ineludibile di riportare equilibrio ed evitare che qualche reietto possa “contaminare” altri, instillando quella reazione a carenze e difficoltà che è la miccia di violenze, soprusi ed efferatezze di ogni sorta. Chi esce “rieducato” da una realtà detentiva deve costituire l’antidoto al degrado e incarnare la dimostrazione che si può e si deve essere diversi.
Il carcere – e può sembrare un ossimoro – deve restituire la dignità a chi l’ha perduta o non ha mai saputo di averla. Perché sono proprio il decoro, la considerazione e l’onorabilità a costituire il freno alle devastanti iniziative di chi pensa di poter delinquere. Occorre contrapporre la fierezza e il contegno di chi sta dalla parte della legge alle altezzose manifestazioni di prepotenza di quelli che fraintendono “l’onore” e ne fanno una patente di prevaricazione e ingiustizia.
Non c’è alcuna necessità di scomodare il Vangelo di Matteo e immaginare Gesù nelle vesti del carcerato. Sarebbe sufficiente rileggere – niente di più, senza alcuno sforzo interpretativo – l’articolo 1 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”. Basterebbe fare un esame di coscienza per verificare serenamente se stiamo rispettandone il primo comma, secondo il quale “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose”.
Potrebbe esser l’occasione per accertare la necessità di un processo di rieducazione necessario anche per chi trasgredisce queste regole basilari e depenna la parola “civiltà” dal proprio vivere quotidiano.