Tralasciando il fatto che, fin dai suoi albori, l’essere umano ha sempre lottato per sopravvivere senza porsi scrupoli, e che ancora oggi persiste nel suo atteggiamento, è d’uopo dare voce a tutti quegli eroi che voce non hanno e mai avranno, piccoli, medi e grandi, muniti di ali, zampe, code o pinne.
Umili, spesso nostri devoti amici, ma sempre inconsapevoli ed ignari, fiduciosi (purtroppo) negli umani. Si tratta di animali che ovviamente non hanno potuto decidere in maniera autonoma di far parte della storia militare, sebbene arruolati in massa.
Qui ricordiamo, unicamente come esempio, a nome di tutte le specie viventi che l’uomo ha sacrificato e sacrifica per i propri scopi, anche quando non servirebbe, che solo durante la prima G.M. sono stati immolati, a livello bellico, circa 10 milioni di equini (cavalli, muli e asini), 200mila piccioni e colombi viaggiatori e più di 100mila cani, oltre a tante altre specie animali come i delfini: circa 16 mln di animali, un grande esercito di acqua, di terra e di aria, che nella Prima Guerra mondiale affiancò più di 74 milioni di combattenti di ogni nazionalità.
Dopo anni, la Cia ha declassificato molti file che provano come cani, gatti, delfini, piccioni e corvi vennero addestrati durante la guerra fredda per varie missioni, tra cui spiare l’allora Urss. I più efficienti furono i piccioni viaggiatori, usati a tal scopo sin dai tempi antichi ma potenziati, a livello di intelligence, durante la prima G.M., in quanto non soltanto capaci di volare su obiettivi sensibili, fotografandoli, ma anche in grado di tornare alla base, seppur posta a centinaia di km.
Più della metà delle immagini era sempre qualitativamente superiore a quelle dei satelliti spia dell’epoca. Infatti durante il Secondo conflitto i servizi segreti britannici ricorsero ai piccoli pennuti per spiare i nazisti, lanciandoli sull’Europa allora occupata; in molti tornarono con messaggi utili (detti piccionigramma) riguardanti i siti di lancio dei razzi V1 e delle stazioni radar tedesche. Ma in molti furono abbattuti.
Nel dopoguerra la Cia continuò ad usare animali per missioni segrete, investendo su delfini, cani, gatti e rapaci, come falchi, avvoltoi e corvi, addestrati per portare o recuperare piccoli oggetti su davanzali di edifici inaccessibili. Tutti i volatili spesso venivano trasportati e nascosti per le loro missioni in spazi ristretti, al buio, al caldo o al freddo.
La Cia provò anche con dei pappagalli, intelligenti ma troppo lenti, però, per evitare gli attacchi dei gabbiani. Una missione del 1976 prevedeva, ad esempio, di trasportare segretamente i piccioni a Mosca dentro un cappotto pesante, o sul fondo di un’auto, lanciandoli dal finestrino della vettura in corsa, per spiare i cantieri navali dei sottomarini sovietici in costruzione.
Fu previsto l’impiego di poveri gatti con impianti di intercettazione interni e di cani guidati a distanza con stimolazioni elettriche del cervello, senza grossi risultati. I delfini invece, da sempre molto duttili all’addestramento, si rivelarono ottime spie per infiltrarsi nei porti nemici, con l’importante compito di individuare, tramite l’ecolocalizzazione, il loro “sonar” naturale, i sommergibili dell’Armata Rossa o le tracce di armi radioattive e biologiche vicino alle basi navali, per stanare sommozzatori nemici o rilevare mine sommerse.
Durante la Guerra Fredda gli USA avevano un allevamento di delfini da guerra in California, mentre l’URSS una in Crimea. Questi dolcissimi mammiferi furono utilizzati anche come kamikaze contro il nemico, e più di 2000 cetacei morirono per assolvere alle loro missioni. Ovviamente entrambi gli Stati non lo ammettono, in quanto questi cetacei, di sicuro più intelligenti e più buoni degli umani, in natura rifiutano di compiere azioni che provocano dolore.
Nel contempo però i delfini in missione suicida non capivano quello che causavano, se non al momento del massacro, da cui essi stessi rimanevano colpiti. Attualmente Russia, America ed Ucraina hanno programmi di addestramento dei delfini, che vengono equipaggiati con pugnali o armi da fuoco fissate sulla testa.
Quindi l’utilizzo degli animali-spia continua ancora: recentemente la marina norvegese ha rilevato una balena con cablaggi, forse addestrata dai russi.
In ogni guerra l’uomo (come gli elefanti usati da Annibale per valicare le Alpi) ha sempre utilizzato gli animali: li ha mangiati, addomesticati, massacrati, uccisi, curati o accuditi, sfruttati, nutriti, violentati, disprezzati o amati, torturati, e chissà cos’altro. Del resto, gli umani fanno così anche tra di loro.
In realtà la storia delle guerre, e della vita tutta, evidenzia relazioni umani-animali molto articolate, tra atti di eroismo ed eventi di crudeli. Il binomio guerra+animali più noto è di sicuro soldati+cavalli (insieme a muli, asini, cani), per cui è difficile credere che siano stati usati anche ratti, api, beluga e tante altre specie, come il cammello, l’orso, il maiale, il bue, le galline. Sì, anche loro. Spesso tra militi ed animali si creava un legame profondo, ma sempre spietatamente sottomesso alle dure regole della guerra.
Gli eserciti tutti, per sopravvivere, dovevano trasportare materiali, viveri, macchine e armi; soprattutto in alta quota i sentieri erano stretti ed impervi, per cui si ricorreva ad asini e a muli, che spesso morivano di stenti sotto pesi eccessivi. Non a caso i sentieri più duri si chiamano, anche oggi, mulattiere.
Il cavallo (nell’immaginario collettivo simbolo di guerra con il suo cavaliere) era sia mezzo di trasporto che scudo protettivo, in caso di assalto all’arma; ma anche cibo nei momenti bui. Francesco Baracca, asso della neonata aviazione italiana, fece dipingere sul suo aereo un cavallino rampante, simbolo di coraggio; quando fu abbattuto, il cavallino smise di volare nell’aria ma iniziò a correre in terra: Enzo Ferrari lo scelse come emblema della sua scuderia.
Il mulo e l’asino, accaniti lavoratori per antonomasia, venivano caricati di munizioni e viveri. I cani cercavano i feriti, trasportavano viveri, medicine e munizioni in condizioni impossibili da sopportare per gli altri animali, facevano la guardia, allertando le truppe, fiutando la presenza di armi, mine ed esplosivi. Il piccione era un rapido portaordini che percorreva silenziosamente grandi distanze, usato però anche come cavia per rilevare la presenza di gas tossici.
Dovremmo riconoscere l’eroismo di questi animali, spesso abbandonati a sé stessi durante gli spostamenti dell’esercito, mandati a morire di stenti e a soffrire nel fango insieme alle truppe al fronte, tra bombe e proiettili; dobbiamo ricordare queste ottime truppe ausiliari dagli occhi innocenti e addolorati, senza il cui aiuto sarebbe stato tutto più difficolto, se non impossibile. Sui campi di battaglia non riposano soltanto migliaia di soldati, ma anche migliaia di animali che ci hanno regalato inconsapevolmente ma con coraggio la loro vita, con fiducia malriposta nel genere umano. Su questa fiducia si può discutere all’infinito. Ma intanto apprezziamoli e non dimentichiamoli.