Ieri ho assistito, per pochi minuti, a programma televisivo in cui era ospite il padre di Ilaria Salis, al centro di discussioni e polemiche per il trattamento inflittole durante le udienze in tribunale in Ungheria, ove viene condotta incatenata mani e piedi, e in qualche occasione anche con una sorta di guinzaglio.
Premesso che non sia il caso neppure di dubitare che tutti siamo d’accordo sul fatto che il trattamento usatole non sia corretto, sotto il punto di vista del rispetto dei diritti umani, provo a ricapitolare.
È accusata di aver partecipato a un pestaggio di neo-nazisti, il cui esito per alcune fonti sarebbe stato di pochi giorni di prognosi, non refertati, per altre avrebbe causato danni gravissimi alle vittime. L’azione sarebbe stata pianificata nel quadro di una sorta di offensiva antifascista di alcuni gruppi di estrema sinistra nei confronti di sodalizi avversi soliti festeggiare annualmente la battaglia di Budapest durante la quale, nelle fasi finali della 2^ Guerra Mondiale, i tedeschi si opposero all’arrembante Armata Rossa sovietica.
L’accusa è sostenuta dall’esito d’indagini – non possiamo dubitarne pena impelagarci in un roveto di assurdità sostenute esclusivamente da posizioni ideologiche – e dal ritrovamento di un manganello telescopico fra gli effetti personali dell’imputata.
Naturalmente essere accusati non comporta l’automatica colpevolezza, e del resto le autorità ungheresi la stanno sottoponendo ad un processo per accertarne le responsabilità. Nel frattempo la tengono in carcere.
Ma non è questo il problema. In Italia di persone condotte di fronte ad un giudice dopo un anno di carcere preventivo se ne contano a decine di migliaia: se condannate il periodo trascorso dietro le sbarre in attesa di processo viene conteggiato nella pena già scontata, se assolte hanno diritto al risarcimento per ingiusta detenzione.
Il fatto che, ove fosse accaduto in Italia, la Salis non avrebbe scontato oltre un anno di carcerazione preventiva, lascia il tempo che trova: ogni paese ha le sue leggi. In Ungheria funziona così e dobbiamo rispettarne l’indipendenza, intervenendo nelle opportune sedi, eventualmente, affinché modifichi certi aspetti della propria legislazione.
La pretesa di una certa stampa allineata sulle posizioni ideologiche della Salis vorrebbe un intervento dell’esecutivo italiano sul paritetico ungherese, per ottenere dalla magistratura di quel paese una serie di provvedimenti, fra i quali, ovviamente, gli arresti domiciliari, magari in Italia.
Con buona pace della tripartizione dei poteri e dell’indipendenza di quello giudiziario. Orbene – alla luce delle dichiarazioni dell’ex-magistrato Luca Palamara riportate nei libri da lui scritti con il giornalista Alessandro Sallusti – in Italia è accaduto che la politica abbia influenzato l’apparato giudiziario, e la risibile percentuale di condanne di Silvio Berlusconi a fronte dei procedimenti aperti sul suo conto, unitamente al reale risultato di “tangentopoli”, con circa un terzo di condanne rispetto al numero di indagati, deve far riflettere. Non so se in Ungheria ciò non accada, ma è perfettamente legittimo che il governo Orban replichi di non potere influenzare le decisioni della magistratura. Non ci sono più l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia, né il tribunale speciale del fascismo e le corti naziste, ove il giudice doveva decidere in linea al volere del dittatore – o del Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica che naturalmente dittatore non era – in carica. Certe cose possono avvenire, ma non possono essere ufficializzate.
Ma neppure questo è il problema.
Ieri sera un deluso e affranto padre della Salis ha elaborato un poderoso concetto giuridico degno di approfondimento. Nel solito salotto televisivo composto da politici e giornalisti apoditticamente pro o contro la Salis e ciò che rappresenta, incalzato circa l’accertato possesso del citato manganello telescopico – elemento che non giustifica le catene a mani e caviglie e la gogna televisiva – il genitore più celebre d’Italia ha replicato stizzito che l’oggetto fosse “per uso personale”.
Sorvolo sul fatto che sia vietata anche in Italia la detenzione di armi e “oggetti atti ad offendere”. Se si viene scoperti con un manganello in auto, nella borsetta, etc., scatta la denuncia e il sequestro. Liberissima quindi l’Ungheria di sanzionarne porto e possesso, come meglio crede.
Non è un caso se in passato in Italia nelle manifestazioni si girasse con una chiave inglese o un cacciavite, potendone più facilmente giustificare il possesso in quanto ci si era appena recati da amico compiacente a riparargli il lavandino.
M’immergo invece in questa nuova posizione dottrinale degna d’approfondimento: l’uso “personale” del manganello.
Lo provo a elaborare sulla scorta di un concetto a lungo dibattuto in materia di stupefacenti. Inizialmente sorprendere qualcuno in possesso di una dose consentiva l’arresto; in seguito, tutto sommato correttamente, fu permesso di evitare arresto, denuncia e condanna se la quantità di droga potesse essere giustificata perché destinata a mero uso personale.
Inizialmente la norma fu interpretata considerando come modica quantità una dose; successivamente si giunse da parte di qualche giudice a giustificare anche un etto. Si voleva tener conto del fatto che l’utente potesse far incetta di stupefacente per sfruttare saldi di fine stagione e offerte speciali, evitare periodi di carestia nelle piazze di spaccio e rarefare gli acquisti per aver più tempo libero.
Passiamo ora al manganello (telescopico). Cosa intende, o potrebbe voler intendere, papà Salis per “uso personale”? Individuo, di seguito, più ipotesi.
Autoerotismo? Va bene, ognuno è libero di soddisfare le proprie legittime pulsioni nella sfera sessuale, che non ledano gli altrui diritti. Ma è il caso che un papà lo faccia intuire della figlia? E poi, con l’ampia gamma di gadgets disponibili sul mercato per la peculiare esigenza, può reggere questa giustificazione? Ad ogni modo, de gustibus…, diciamo che la cosa possa essere proponibile.
In alternativa “uso personale” sottende atti di self-sado-masochismo? Bene, se è così, ancorchè privata dell’attrezzo destinato allo scopo di auto-soddisfare le proprie pulsioni a provare dolore, la Salis in qualche altro modo, con ceppi e catene, ha subito sicuramente pene e sofferenze ingiustificate alla luce dell’ordinamento italiano, in questi 13 mesi. Se era questo lo scopo del manganello, un surrogato le è stato garantito.
Le due soluzioni interpretative suindicate sono tutto sommato socialmente e penalmente accettabili, ma è la terza interpretazione che delineo ad essere inquietante.
Il manganello, usato “per uso personale” serve quale legittima difesa a condizione che lo si vibri non più di una-due volte?
Naturalmente non deve essere troppo pesante, privo di elasticità “a molla” delle mazze da trincea utilizzate durante la Grande Guerra dalle truppe degli Imperi Centrali, e magari di protuberanze e appendici che richiamino la forma delle medievali mazze ferrate.
Qui, mi spiace, ma rilevo un’assoluta inaccettabilità del principio. In analogia all’etto e mezzo di hashish consentito da qualche giudice particolarmente sensibile alle esigenze di risparmio e accumulo di scorte del tossico, non c’è il rischio che un giorno possa essere ritenuto “uso personale” anche quello della mazza chiodata tanto popolare fra le unità d’assalto di quasi tutti i belligeranti della Grande Guerra? Soprattutto se l’aggressione da respingere si caratterizzi per particolare pericolosità?
E allora il signor Salis espliciti meglio dove vorrebbe arrivare col suo dire. Non credo che attualmente siano molti i turisti che girano il mondo muniti di manganello telescopico, a mero scopo di autodifesa personale, ma ove fornire questa opportunità, sarebbe bene discuterne. Non a caso il PD sta valutando l’opportunità di candidare – lui o la figlia – alle prossime europee, onde sciogliere questo dilemma interpretativo sulle parole di Mr. Salis.