La storia non si svolge in via Merulana, dove Carlo Emilio Gadda ha ambientato il suo romanzo, ma nei teatri caldi dell’Europa e dell’indopacifico. Ci siamo cacciati con le nostre mani nel grande pasticcio ucraino ed ora con le stesse modalità potremmo finire in un’altra situazione ingarbugliata con risvolti ancora più drammatici.
Come ci dicono chiaramente l’ambasciatore australiano negli USA, Kevin Rudd e Kishore Mahbubani ex-ambasciatore di Singapore alle Nazioni Unite, questo è il secolo asiatico. Abbiamo assistito negli ultimi 50 anni ad uno spostamento dell’asse economico politico da ovest verso est.
Nel 1960 nei primi 5 Paesi per potenza economica non vi era la presenza di nessuna nazione asiatica. Oggi 3 su 5 sono asiatici. Molti in occidente non si sono ancora resi conto di questo epocale cambiamento. Che non è solo economico, ma anche culturale. Siamo, cioè, passati da un’unica cultura dominante, quella occidentale, ad un mondo nel quale altre culture sono pariteticamente emerse.
E gli Stati Uniti di fronte a questo cambiamento hanno reagito esattamente nel modo che ci si sarebbe aspettato da una potenza che fino a qualche tempo fa era l’unica che dominava sul pianeta: cerca di spingere giù i nuovi rivali. E questo non sorprende per coloro che studiano questi fenomeni geopolitici. È una risposta assolutamente prevedibile.
Ciò che rimane però da domandarsi è: cosa la potenza egemone “in difficoltà” vuole veramente ottenere? Quali sono i suoi obbiettivi intermedi per poter effettivamente contrastare la potenza o le potenze emergenti?
Se si tratta di bloccare la crescita economica della Cina, questo non è una cosa fattibile. Tariffe, dazi, sanzioni, embarghi sono tutte lame a doppio taglio e non portano ad alcun risultato concreto. Dunque, non si può bloccare l’impetuosa crescita cinese.
Se si tratta di effettuare un cambio di regime, rovesciando il Partito Comunista Cinese, anche qui non si può fare. Non è realistico ed è di fatto impossibile.
Se si tratta di isolare la Cina, come gli Stati Uniti hanno fatto con la Russia post-sovietica, anche qui non si può fare: non si può proibire ad i 193 Paesi del pianeta di avere relazioni con la Cina. Dunque, anche questo non si può fare.
Quindi rimane da capire come gli Stati Uniti intendano procedere per proteggere i loro interessi egemoni.
Non si deve mai perdere di vista il fatto che il 12% della popolazione mondiale è collocato nel cosiddetto occidente e che il restante 88% non vede la Cina come la vediamo noi.
La Cina è una civiltà che ha 4000 anni di storia ed ha avuto alti e bassi: l’ultimo periodo “basso” è quello che va dal 1842 al 1949 e che i Cinesi chiamano il “secolo dell’umiliazione” da cui vogliono riscattarsi. È lo hanno fatto e lo stanno continuando a fare. Una nazione che prima era chiusa nella sua povertà e che oggi è aperta al commercio con tutto il mondo. Un dato per tutti: Il Brasile da sempre sotto l’influenza americana, anche per ragioni continentali, un tempo scambiava con la Cina un miliardo di dollari di merci all’anno. Oggi lo stesso quantitativo lo scambia in 60 ore.
Immagino che a questo punto qualche lettore dentro di sé possa obiettare che questo paese potente che sta così rapidamente crescendo è governato da un unico partito, marxista e Leninista. Uno stato autoritario dunque. Nella Trattato delle Nazioni Unite al capitolo uno viene espressamente enunciato che ogni popolo al diritto alla auto determinazione ed a scegliersi la propria forma di governo. Risiede nella volontà dei Cinesi di cambiare o meno una forma di governo. Inoltre, quando nel 1971 gli Americani di Nixon si innamorarono della Cina, a capo del partito popolare cinese vi era Mao, che certamente non era un campione di diritti umani o di larghe aperture democratiche.
Come si vede la geopolitica è una disciplina molto crudele che a seconda delle convenienze mette da parte i principi ideologici; oppure ne fa una bandiera a cui immolare centinaia di migliaia di vite umane. In asia vi sono altri regimi comunisti, con i quali gli USA sono ben felici di fare affari e stringere alleanze in chiave anticinese. Il Vietnam è uno di questi. Non esiste nel concetto geopolitico una potenza egemonica che sia benevola: lo è solo e fintanto che i suoi interessi primari siano soddisfatti. Quindi il tipo di governo autoritario o democratico non c’entra nulla nella partita a scacchi tra potenze. Spesso è solo una enunciazione di facciata e propagandistica.
Nel gruppo dei dieci paesi che si raggruppano sotto la denominazione di ASEAN, vivono oltre 660 milioni di persone: 250 milioni sono mussulmani, 150 cristiani, 150 buddisti più tutta una galassia di religioni minori. Eppure, tra queste popolazioni c’è una sostanziale armonia e rispetto reciproco da cui forse dovremmo imparare qualche cosa. Dalla fine della guerra del Vietnam nel 1979 la regione è in uno stato di pace.
Penso che anche qui il nostro lettore che fin qui ha avuto la pazienza di leggere stia pensando: “non mi riconosco in questa visione idilliaca del mondo asiatico e della Cina”. La risposta è molto semplice: verissimo, la Cina ed i suoi vicini sono tutt’altro che perfetti. Anche la Cina ha le sue “bolle economiche” i suoi problemi bilaterali con paesi confinanti. La questione dell’egemonia sul mar Cinese (oggi ribattezzato indopacifico) è su tutti i media quasi quotidianamente. La così detta area delimitata dai Cinesi e chiamata “the nine-dash line” ed è elemento di contesa con i paesi che si affacciano su quel tratto di mare: Vietnam, Filippine, Brunei e Tailandia, che sono altrettanto desiderosi di estendere la loro “ exclusive economic zone (EEZ)” .
Ma dei 193 Paesi del nostro pianeta, chi non ha problemi bilaterali con nazioni vicine? Un esempio a noi prossimo è quello dalla EEZ algerina che è stata arbitrariamente spostata fino quasi alle coste della Sardegna. Oppure gli incidenti, frequenti fino a qualche anno fa, sul diritto di pesca nel canale di Sicilia, con sparatorie tra pescherecci e motovedette della Guarda costiera tunisina; finanche ad arrivare al sequestro di imbarcazioni ed equipaggi. Ma alla fine sono questioni che si devono risolvere senza necessariamente sfociare in una guerra. Ed è ciò che avviene tra questi paesi. C’è un vecchio detto in Vietnam sulle qualità che un vero Leader deve possedere per governare il Vietnam: “devi essere capace di fronteggiare la Cina e…di andarci d’accordo”. Altrimenti non potrai mai essere un buon leader vietnamita.
La maggioranza dei paesi vuole poter intrattenere rapporti con tutte e due le super potenze: non vuole essere obbligata a scegliere. E così la maggior parte di loro fanno. Se Biden organizza una conferenza a Washington con i paesi ASEAN, questi ci vanno: se Xi organizza il medesimo incontro a Pechino, ugualmente saranno presenti.
Ma c’è una questione che per Pechino è una linea rossa, così come per la Russia l’entrata dell’Ucraina nella Nato era ed è una linea rossa.
Xi ha ribadito, anche nell’ultima telefonata che Biden gli ha fatto (evento raro di questi ultimi tempi e che ha sollevato non poche illazioni sui motivi veri che abbiano spinto Biden a chiamare Xi) secondo quanto affermato nel comunicato cinese, che su Taiwan la Cina è pronta ad un conflitto armato. Come Putin disse più volte sulla questione Ucraina.
Una volta Mao parlando con Nixon della questione di Taiwan disse: “lasciamo che il tempo aggiusti le cose”. È così è stato per molti anni, fino a qualche anno fa. Le tensioni sono sempre state contenute.
Ma in tempi più recenti, stiamo assistendo ad un cambio di paradigma.
Gli Stati Uniti in barba agli accordi presi, proprio come fecero in Ucraina dal 2014 in poi, hanno cominciato ad armare l’isola in maniera massiccia, ed a inviare consiglieri militari. Sfruttano qualsiasi incidente capiti nel mar cinese per flettere i muscoli della settima flotta che include una formidabile armata di portaerei e naviglio pesante con i nuovissimi aeroplani F35 imbarcati e pronti all’uso.
Dunque, dobbiamo pensare che questo sia l’esito a cui gli Stati Uniti mirino per depotenziare la Cina? Le manovre di accerchiamento di paesi come il Giappone, Corea del Sud, Australia, sono in questa chiave. E per questo che anche la nostra portaerei Cavour è lì nell’indopacifico?
In queste settimane stiamo assistendo al fallimento dalla politica di guerra condotta dagli Usa in Europa, con l’assenso, l’inerzia, l’inettitudine e la complicità di noi stessi europei. Atti di guerra gravissimi come il sabotaggio del Nord Stream due, annunciato da Biden in una conferenza stampa alla presenza di un imbambolato Cancelliere tedesco, e derubricato come attentato compiuto da “non si sa chi”, le cui uniche due indagini ufficiali (Danese e Svedese) si sono limitate nelle loro conclusioni ad appurare che si sia trattato effettivamente di un sabotaggio, ma senza spingersi oltre nella ricerca di chi avesse perpetrato questo vero e proprio atto di guerra.
Molto conveniente direi per il mandante! Eppure, noi europei abbiamo accettato tutto passivamente fino ad arrivare al rifiuto nel dicembre 2021(pochi giorni prima dell’invasione russa) di trattare con Putin sulle condizioni di non adesione alla Nato dell’Ucraina. Ed oggi ci troviamo nel “pasticciaccio brutto” da cui non sappiamo più come uscirne, senza ammettere che i nostri decisori politici hanno preso (e continuano a prendere) una serie di catastrofiche decisioni che ci stanno portando ad una continua, pericolosissima escalation di guerra.
Il rischio è quello che il copione si riproponga uguale nell’indopacifico, ma questa volta con pericoli ancora maggiori associati ad una guerra globale e probabilmente finale.
Il lettore attento ai principi del diritto internazionale a questo punto ancora una volta, starà pensando: “ma i cittadini di Taiwan non hanno il diritto di scegliersi da che parte stare e con chi stare?” Sì, ce lo hanno. Ma proprio per questo perché non seguire il pensiero di Mao su questa storia? Non poniamo limiti di tempo. Lasciamo che le future generazioni trovino una soluzione: lo status quo ha funzionato per decenni, perché cambiarlo ora?
Non deve essere questo il modo per gli Stati Uniti di “abbassare” le pretese egemoniche della Cina. Se ne trovino altri. Non questo. Non si deve oltrepassare la line rossa: la questione Ucraina è lì a ricordarcelo.
In fondo, il viaggio che i 193 paesi del mondo stanno compiendo, non è più come una volta che veniva effettuato in barche separate, e dunque se qualche barca affondava, o per le intemperie del mare o perché si scontrava con altre barche, le altre potevano anche girarsi dall’altra parte e far finta di nulla; oggi è diverso. Il viaggio lo facciamo tutti su una stessa nave, in cabine separate, ma sulla stessa nave. Se scoppia un incendio a bordo o lo spegniamo tutti assieme oppure andiamo a picco.
E non si salva nessuno.