Il giorno di Pasqua abbiamo sentito Papa Francesco, tra le varie parole, affermare: “Doniamo la pace ai popoli martoriati”. Di contro il Patriarca russo Kirill ha affermato che contro l’Ucraina è in atto una “guerra santa”, portata avanti dalla Russia. Le parole del Patriarca Kirill fanno tornare alla mente la “jihad islamica”, impropriamente definita “guerra santa islamica”.
Quest’ultima è stata latrice di atti di terrorismo a livello internazionale dove vittime innocenti hanno trovato la morte, quando non sono stati torturati e uccisi con inumana ferocia. Forse non tutti sanno che la parola “jihad” è maschile, quindi il jihad e non la; inoltre il significato primo è sforzo, inteso come impegno a convertire gli infedeli con ogni mezzo, anche la forza. Questo in estrema ed imprecisa sintesi.
Nell’antichità di parlava di “Bellum Iustum”; a Roma si generò un dibattito in merito alle modalità ed alla legittimità delle conquiste. Sostanzialmente erano le facce di una stessa medaglia in quanto la legittimità era conseguente al primo aspetto. La guerra raffigurava, poco è cambiato da allora, sia le relazioni internazionali, sia la rappresentazione politica verso il mondo esterno, le ricadute in termini di gruppi di potere politico e militare all’interno e, infine, la problematica connessa alla gestione della pace e dei territori conquistati sia in termini politici, sia economici, sia militari.
Il potere militare aveva una valenza religiosa, come i riti connessi con la pratica militare, come l’armilustrum, per purificare le armi, la lustratio exercitus, cerimonia espiatoria e apotropaica celebrata prima di partire per la campagna bellica, il sacramentum, il giuramento di fedeltà da parte dei soldati al proprio comandante, e i riti che accompagnavano l’insediamento nei castra.
Alla sfera religiosa appartenevano i riti dell’evocatio, con cui i romani invitavano le divinità dei nemici a passare dalla loro parte e la devotio, sacrificio di sostituzione con cui un comandante si votava agli dèi infernali per salvare il proprio esercito e assicurare la vittoria. La stessa dichiarazione di guerra era accompagnata da due rituali: quello svolto dal collegio sacerdotale di venti membri dei Feziali e l’apertura delle porte del tempio di Giano.
I Feziali erano i sacerdoti depositari del diritto sacro, lo ius fetiale, relativo ai trattati di alleanza ed alle dichiarazioni di guerra. La guerra era un fattore politico, ma non era disgiunta da elementi religiosi. La religione, naturalmente, non poteva che giustificare guerre “eticamente giuste”. La legittimazione veniva sintetizzata nell’espressione “bellum iustum”.
Il “bellum iustum” era alla base delle norme che per Roma regolavano il diritto internazionale. I romani elaborarono un sistema di regole, rese inviolabili dalla religione, da impiegare nei rapporti internazionali; regole e procedure che rendevano la guerra un “bellum iustum”.
Certamente le procedure dello ius fetiale per attribuire ad un evento di guerra la peculiarità di bellum iustum erano funzionali a Roma e potevano essere costruite ad arte. La sintesi di Cicerone è che il bellum iustum prevede una visione etica della guerra che è in rapporto con la pace, spingendosi ad affermare che la pace sarebbe il fine della guerra.
Gli aspetti religiosi non permeavano solo la parte inerente ai trattati internazionali ed alla guerra ma anche quelli relativi alla tattica ed alla conduzione delle battaglie. L’esercito romano era per i duelli ad armi pari dove coraggio, abilità e lealtà erano sullo stesso piano.
Anche la dottrina cristiana, per mezzo dei teologi, dei filosofi, dei massimi rappresentati del clero, ha fornito delle spiegazioni e delle interpretazioni sulla guerra in base ai vari momenti storici; tutto va sempre contestualizzato e non letto con la lente del presente.
Nell’Antico Testamento sono molte le citazioni che definiscono la guerra “buona e giusta”; i condottieri sono guidati ed ispirati da Dio, la sconfitta è una punizione per i peccati commessi.
Nel Nuovo Testamento Dio non comanda la guerra ma invita alla pace ed all’astensione da ferocia e vendetta. Nel Vangelo di Matteo si legge: “beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio”. Molti teologi, quali il gesuita Cardinale Bellarmino (1542-1621), il domenicano San Tommaso d’Aquino (1225-1274), il Vescovo Sant’Ambrogio (339/40-390) ed altri consideravano le parole dei Vangeli più finalizzate a condannare la violenza del singolo che non la guerra, non proibita dal quinto Comandamento.
Parimenti si afferma una netta divisione tra laici, difensori in armi della patria, ed i religiosi che non possono imbracciare le armi. La guerra è interdetta a chi appartiene allo stato ecclesiale a qualsiasi titolo.
Sant’Agostino (354-430), massimo pensatore del primo millennio, Vescovo d’Ippona, scriveva: “la volontà deve tendere alla pace mentre la necessità spinge alla guerra proprio perché Dio liberi l’uomo dalla dura necessità e conservi la pace. Alla pace non si mira per ingaggiare la guerra ma si fa la guerra per raggiungere la pace”. Uccidere in guerra, obbedendo ad un ordine legittimo, non è peccato di omicidio, anzi disobbedire sarebbe trasgredire ad un comando.
Sant’Agostino parla da Vescovo, Autorità con responsabilità anche civili e politiche, in un momento in cui le pressioni dei barbari sull’impero romano erano incombenti e le minacce di distruzione elevate. La guerra gli appare inevitabile e, forse, giustificabile. Lo sorreggeva la lettura di Cicerone con la sua visione del bellum iustum, prospettiva etica della guerra, nel rapporto della stessa con la pace.