Fortunato di nome ma, di fatto, sfortunato nella vita. Anzi di più, sventurato proprio: non solo dimenticato, ma anche tartassato e ingiustamente tacciato di tradimento per anni, con la memoria, seppur ce ne fosse mai stata una, completamente infangata. Eppure la sua vicenda ci offre di tutto, ma non il tradimento. Solo molto tempo dopo la sua morte si è cercato di restituire a Fortunato la sua giusta dignità di eroe.
Il toscano Fortunato Picchi, classe 1896, morto fucilato nel 1941 a Roma, fu arruolato in fanteria nel1915, durante la Grande Guerra. Sopravvisse e si congedò nel 1919, per poi traferirsi a Londra due anni dopo. Qui lavorò per circa 15 anni, facendo carriera nella ristorazione dei più prestigiosi Hotels, ma sempre rientrando saltuariamente in quella sua Italia che continuava strenuamente ad amare, e di cui manterrà la cittadinanza per tutta la vita.
All’inizio della seconda G.M., tutti gli Italiani residenti in Gran Bretagna vennero internati, per cui Picchi restò sull’isola di Man fino al 1940. Fu proprio qui che egli, convinto antifascista, decise di aderire all’associazione di antifascisti italiani Free Italy Movement, per poi chiedere, ed ottenere, di essere arruolato nel corpo dei pionieri; successivamente divenne un agente dello Special Operations Executive, servizio di intelligence inglese creato da Churchill in persona per sostenere ed incoraggiare la resistenza dei civili europei contro i nazisti, ricorrendo finanche al sabotaggio ed alla sovversione.
L’ultraquarantenne, quasi cinquantenne Picchi, lasciò la comoda vita agiata che si era costruito in Inghilterra e si allenò duramente come agente segreto e come paracadutista. Nel 1941 fu scelto per una missione con altri trentaquattro compagni (la così detta operazione Colossus) e fu paracadutato in Italia allo scopo di danneggiare l’acquedotto pugliese. Ma l’incarico riuscì solo in parte, in quanto gli scarsi danni arrecati vennero riparati in pochi giorni.
Purtroppo, al momento dell’estrazione, Picchi e il suo gruppo furono intercettati e catturati; ma mentre i sabotatori inglesi, grazie alla convenzione di Ginevra, vennero imprigionati e si salvarono, Picchi, essendo italiano, venne processato dai fascisti, condannato a morte per alto tradimento e fucilato a Roma, a Forte Bravetta, nel 1941. Il tutto nel giro di poche ore. E ancora c’è chi si chiede perché, chi glielo ha fatto fare, ma è stato un traditore o no…Non fu traditore, ma eroe della Resistenza, non doveva colpire gli italiani, ma il regime fascista.
In realtà Fortunato era libero, celibe, guadagnava bene, era sempre contento e di buon umore, integratissimo nel Paese che lo aveva adottato, perfetto bilingue, viaggiava e viveva la sua vita in tranquillità, aiutando economicamente la sua famiglia d’origine; inoltre essendo ultraquarantenne non aveva obblighi militari o civili, dunque in sostanza non gli mancava nulla; invece scelse di arruolarsi volontario scegliendo il pericoloso lavoro di 007: amava l’Italia, era fervente antifascista ed antinazista, voleva la liberazione della sua Patria a tutti i costi, fosse anche colpendo degli obiettivi.
Così si allenò, si buttò giù da un aereo, a fine missione si ferì ad una gamba e fu catturato dai fascisti. I tabloid inglesi tributarono onori allo sventurato Picchi, considerandolo un eroe, un martire della lotta antifascista italiana, dedicandogli anche la sezione per bambini poveri del Queen Elisabeth Hospital.
In Italia invece solo qualche giornalista e qualche scrittore hanno cercato di rivolgere un pensiero ad un Picchi visto per quello che è, un eroe della Resistenza e non un traditore, un antifascista generoso e coraggioso che ha cercato di agire per il bene della Patria, un borghese celibe e benestante che invece di godere della sua tranquillità optò per l’azione fattiva contro il regime di Mussolini, Picchi non era un politico, non era né opportunista, né un esaltato, ma viveva nella Londra degli anni trenta del novecento, la cui classe governativa simpatizzava con i regimi dittatoriali continentali ed il cui Re Edoardo VII, com’è noto, non disdegnava il nazismo.
Fortunato invece era un cattolico, anche se non praticante, che ammirava Garibaldi e le sue gesta, si sentiva mezzo inglese e tifava Arsenal, ma non rinunciò mai alla nazionalità italiana ed all’amore per la sua Patria; infatti, quando gli palesarono la possibilità di lasciare l’isola di Man e tornare al suo redditizio lavoro, Picchi, anziché limitarsi alla mera attività di propaganda antifascista, scelse con coraggio l’azione diretta.
Entrò nel corpo dei paracadutisti quasi cinquantenne, sottoponendosi ad un durissimo addestramento fisico, ai lanci ed all’uso delle armi, rendendosi disponibile anche come interprete ed offrendosi volontario per quella missione Colossus, che gli sarà fatale. Scelta resa ancor più difficile dalla consapevolezza che avrebbe di certo combattuto contro i suoi compatrioti, ma che ciò sarebbe stato necessario per attaccare il regime dittatoriale.
Necessario come la sua morte, una vergognosa fucilazione di spalle a Forte Bravetta. Quando venne arrestato, cercò di evitare di combattere per non spargere sangue tra i civili, e dichiarò subito che era in missione non per tradire l’Italia, ma per combattere il regime fascista. Quando venne velocemente giustiziato, i giornali italiani accennarono brevemente alla faccenda e poi sopravvenne subito l’oblio.
Nessuna delle innumerevoli storie della Resistenza rammenta Fortunato Picchi, ma “sarebbe forse ora di ricordarsene e di portare qualche fiore sulla sua tomba, se mai si sapesse dov’è” (M. Baudino).
Quando morì, in Inghilterra i democratici lodarono il suo gesto parlando di “Life sacrificed for Freedom” e definendolo “Martyr of the New Risorgimento”. Ma in Italia tutta la sua famiglia fu sottoposta, come c’era da aspettarsi, ai soprusi ed alle vessazioni del regime fascista: unico cruccio di Fortunato, che non pensava alla propria morte ma al dolore che si lasciava dietro.
In una sua ultima missiva alla madre scrisse infatti: «mi dispiace… per voi e per tutti di casa di questa sciagura e del dolore che vi arrecherà… Di morire non m’importa gran cosa, quel che mi dispiace è che io, che ho voluto sempre il bene del mio Paese, debba oggi esser considerato come un traditore». Negli anni ’40 del Novecento qualche testata toscana accennò all’eroismo di Picchi, ma i suoi familiari si opposero a qualsiasi sfruttamento politico della sua persona, e forse anche per questo il suo coraggioso gesto finì dimenticato.
Un oblio ingiusto forse anche perché, come ravvisato dagli estimatori di Picchi, questa vicenda appariva “scomoda”, soprattutto per un paio di motivi.
In primo luogo, il “traditore” Picchi in realtà fu coerentemente “partigiano” prima dell’8 settembre 1943, cioè prima che esistessero i partigiani, molti dei quali nel 1941, senza imputare colpe o giudizi, militavano o simpatizzavano ancora con il regime; in secondo luogo, forse la vera ragione del lungo silenzio seguito alla fucilazione di Fortunato, potrebbe essere che pur essendo egli un fervente antifascista, non era però appartenente a nessun partito politico, e la sua memoria non è stata dunque rivendicata da nessuno, anche per intervento della famiglia, che preferì a suo tempo il silenzio.
In realtà, semplicemente, Fortunato Picchi, “il traditore” amava la democrazia e la propria Patria fino a compiere scelte estreme, non convenzionali, dunque scomode ed impopolari, sapendo di farle e sapendo di rischiare la morte. Doveroso, dunque, in questa sede ricordare ed onorare chi, come Picchi, consapevole dei rischi, lottò strenuamente contro il fascismo ed il nazismo. Un uomo di grande coraggio e di profondo rigore morale come Picchi può diventare un eroe ingiustamente dimenticato e tacciato di tradimento, la Storia è anche questo.
Uno dei nipoti di Fortunato ha dichiarato di essere convinto che suo zio “abbia avuto due handicap: essere partito con largo anticipo rispetto alla Resistenza … ed essere nato in una famiglia cattolica di tradizioni democratiche, sicuramente antifascista, ma non comunista. Senza sponsor politici, dunque, e troppo avanti rispetto ai tempi. Ma soprattutto avanti rispetto a coloro che ancor oggi mostrano incomprensione per il suo gesto e si ostinano a vedere in lui un traditore”.
Picchi decise di arruolarsi come volontario non per esaltazione, ma per servire il proprio Paese combattendo contro il regime fascista, come dirà egli stesso durante il processo del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nella consapevolezza di passare per traditore. Quale prova d’amore più grande per il proprio Paese? Accettare il disprezzo altrui, accettare di morire, pur di agire e reagire per dare un futuro migliore a quest’amore.