Tranquilli, non mi unirò a coloro che hanno dottamente discettato di ritorno al fascismo, di ideologia fascista perenne, di capacità maggiore o minore di Scurati di fare lo storico, di censure e altro.
Mi piace, piuttosto, tentare di proporre una nuova visuale dell’intero problema, sottraendolo alle lenti deformanti e deformate dell’ideologia, ove tutto diventa ottimo o pessimo “a prescindere”, e magari si attende a dare la propria opinione che si sia espresso il vate politico di riferimento, o per incapacità ad elaborarne una, o per timore d’essere emarginato.
Per questo affrontando l’argomento “M” non mi addentrerò nelle tematiche delle leggi liberticide e razziali, dell’omicidio Matteotti, dell’aver diviso l’Italia e provocato la guerra civile non avendo accettato di essere stato bruscamente accantonato da un re, oramai solo pallido erede del soldato che tenne in piedi l’Italia del dopo-Caporetto, conquistando la stima degli alleati, e di qualche predecessore che la sua parte – per la dinastia e l’unità italiana – l’aveva fatta tecnicamente bene.
E mi astengo anche da giudizi politici sul processo di unificazione italiana, tanto ognuno rimarrebbe delle proprie idee preconcette. Parto pertanto da due semplici verità.
- Il globo terracqueo per ¾ è ricoperto da mari e oceani. Per dominarlo, spostando risorse e forze militari ove necessarie, occorre essere padroni del mare. Lo capì Roma contro Cartagine. Al contrario non lo capì Napoleone contro la Gran Bretagna, e manco Hitler.
- Un Paese che ha la pretesa di sedersi fra le potenze del mondo e discutere da pari, o quasi, richiede un capo che abbia una corretta concezione della strategia globale.
Queste premesse credo siano condivisibili da tutti.
Alla luce di queste considerazioni Emanuele Filiberto Testa di Ferro, a cavallo di XVI e XVII secolo, si schierò con l’Impero – che era padrone dell’Atlantico e di gran parte dell’America centro-meridionale – contro la Francia. Vinse a S. Quintino guidando le armate imperiali, riebbe il Ducato di Savoia occupato dalla potente vicina d’oltralpe, e mise in chiaro coi discendenti che, se volevano crescere, dovevano puntare ad espandersi verso l’Italia, loro che mezzi francesi erano e tali si sentivano. Solo così avrebbero potuto prevenire i tentativi di Parigi di fagocitare il piccolo stato, che aveva quale unico pregio strategico il controllo dei passi alpini occidentali.
Per via delle stesse considerazioni i duchi di Savoia e, poi, i re di Sardegna, dalla Guerra della Lega di Augusta del 1690 alle Guerre di Successione del XVIII secolo, a quelle contro la Francia rivoluzionaria, si schierarono sempre dalla parte in cui figurava la Gran Bretagna, che dopo aver debellato l’Invincibile Armada spagnola, aveva messo in chiaro che il principale pilastro della sua grandezza fosse il dominio del mare. In effetti anche se a volte i conflitti iniziarono in modo infausto per le armi sabaude, dopo qualche anno si conclusero sempre positivamente, con guadagni territoriali. L’ultimo, nel 1815, l’annessione della Repubblica di Genova.
Del resto la stessa Gran Bretagna, quando iniziò a farsi sempre più ingombrante l’astro statunitense, consapevole che avrebbe dovuto cedere la propria supremazia mondiale e marinara, a quegli zotici cugini d’oltreoceano rimase legata, vincendo 2 guerre mondiali e riducendo al minimo i danni della propria decadenza.
Lo stesso re sciaboletta, la cui testolina strategica evidentemente funzionava, se accettò la Triplice Alleanza per evitare revanchismi austriaci e francesi, scoppiata la Grande Guerra nel 1914, si affrettò a far comprendere al governo da che parte schierarsi, ove fosse stato necessario partecipare a quella che fu definita dal Papa “inutile strage”.
Fu così che venne firmato il Patto di Londra che portò l’Italia dei notabili di Montanelliana memoria a cambiare schieramento, ottenendo rifornimenti da una coalizione che dominava il mare. È un dato di fatto che il nostro soldato vestisse, mangiasse e fosse meglio armato del figliolo che entrò in guerra nel 1940 per “spezzare le reni” un po’ a tutti.
Con questo dove voglio arrivare?
Ad una semplice considerazione: Mussolini di strategia globale non capiva molto. Se poteva aspirare a governare un piccolo Paese rinchiuso in se stesso, come la Svizzera che più volte dileggiò, non era la persona più adatta per guidarne uno che, per via della propria posizione strategica, non poteva sottrarsi ai grandi giochi delle potenze europee.
Già il semplice fatto di avere scelto alleati continentali, terrestri, incapaci sul mare di affermarsi – lo stesso Giappone era un nano di fronte alla potenza contrapposta, gli Stati Uniti, e nel giro di un anno di guerra aveva già perso – denuncia questa sua carenza di capacità di elaborazione di un pensiero strategico concreto, realistico, affidabile.
Orbene, potremmo disquisire per una decina d’italici talk shows senza smuovere le reciproche posizioni di pensiero, circa il fatto che la parabola di “M” dovesse concludersi con lui e l’amante appesi a testa in giù. Peraltro è indubitabile, ricorrendo al tanto caro sillogismo socratico, che non avendo capacità di elaborazione di un pensiero strategico, partecipando ad un conflitto fra giganti potesse solo portare l’Italia al disastro. Come fece.
Dall’attacco – la pugnalata alle spalle – velleitario e impreparato alla Francia, alle legnate rimediate in rapida successione in Africa Settentrionale, Orientale e Grecia. Dal coinvolgimento per l’occupazione improduttiva dei Balcani di più forze di quelle schierate in Africa Settentrionale e Unione Sovietica, all’avventura in questo smisurato freezer conclusasi come tutti sanno. Una sequela record di fiaschi che nessun belligerante riuscì ad allineare, fra 1^ e 2^ Guerra Mondiale.
E se un governante guida un popolo al disastro, appare corretto che l’elettorato, o altra istituzione in grado di farlo, lo mandi a casa. Forse, a Scurati, bastava dire questo.
Ma è una vittima, è uno scrittore – non uno storico – e forse anche lui di strategia globale non capisce molto.
Speriamo a questo punto che non lo candidino, perché all’Italia – lo ripeto, per la posizione geografica che occupa e per le capacità produttive che ha, anche nel settore del pensiero e della cultura – serve una politica che mastichi strategia.