Guareschi s’inventò i personaggi di Peppone e don Camillo, cui Gino Cervi e Fernandel dettero sembianze concrete in una bella serie di film in bianco e nero. La grandezza di Guareschi fu proprio nel concepire due anime che non dovevano rimanere relegate a quei primi anni di un’Italia dalla democratica adolescenza, rurale, di buoni sentimenti.
Ricordiamo la sostanziale complicità fra i due: paradigmatici il matrimonio religioso segreto della figlia di Peppone, che in quanto comunista non poteva andare in chiesa, e il suo discorso patriottico sortito “in automatico” alle note della Canzone del Piave sparse nell’aere dal curato. Oggi questa discordia intrisa di bonomia è venuta meno, inquinata dalla settaria e intransigente attitudine a tener ferme le posizioni, costi quel che costi.
Don Patriciello è uno che ci crede, altrimenti non restava a Caivano-Parco Verde, ed è un pratico: se il governo è di destra a chi devo chiedere una mano per cercare di far migliorare le condizioni generali di quel territorio? E se le Istituzioni sembrano scese finalmente in campo e agiscono, che devo fare? Non dico grazie?
Ha due sole colpe, forse. Non è legato alla sinistra come don Ciotti, cosa grave. Inoltre pian piano diventa un simbolo, uscendo dal degradato e angusto scenario caivanese. Ma l’Italia è questa.
Simbolo è Saviano che scrive un gran libro, giustamente ci fa un bel po’ di soldi, e si convince di essere l’icona dell’anti-camorra.
Simbolo è il capitano di fregata De Falco che, appreso che un comandante di bastimento stia fuggendo dalla nave mentre cola a picco, gli dice “Torni a bordo cazzo!”. Anzi, diventa pure eroe e parlamentare per aver detto dall’ufficio, al telefono, la più normale delle banalità, manco avesse nuotato per salvare “annegandi”.
Simbolo è Scurati il cui monologo censurato è stato in effetti il più recitato, pubblicizzato anche dalla stessa sua obbiettivo politico.
Simbolo è il presidente De Luca, lo sceriffo di Salerno, che ha la pretesa di essere l’unico capace di dar ordine alla regione – per antonomasia – dell’ammuina, del casino, del disordine.
Orbene, di simbolo per ciascuna categoria uno ce ne può stare. E allora si sgomita a chi è più simbolo dell’altro.
Perché il simbolo ha le prime pagine, i servizi in video, gli ospiti di rilievo, fondi e sovvenzioni, comparsate televisive, tutte iniezioni di fiducia per l’ego e il portafogli. Il simbolo inoltre diventa eroe, modello, feticcio da salotto buono, come l’immancabile statua di Padre Pio. E alla fine magari ci escono anche incarichi politici e/o bei cachet per partecipare alle trasmissioni più in voga o di tendenza. Bello guadagnare stando seduti in poltrona a confutare, sic et simpliciter, ciò che dice l’avversario.
Ma troppi simboli fanno confusione, come certi loghi elettorali attuali dove manca solo l’etichetta della “Figurine Panini”. Un simbolo nuovo può rubare attenzione, fa diminuire prime pagine e comparsate, se poi appartiene alla parte politica avversa, o potrebbe passarci, il pericolo si fa immanente.
E allora ciascuno presidia il proprio cortiletto, attento a invasioni di campo.
Mal me ne incolse – e non volevo assurgere da nessuna parte – quando dissi che, ai fini investigativi, nulla ci giunse dal “Gomorra” di Saviano, neanche in termini di risveglio di coscienze. E ringraziassi per i risultati operativi solo i miei collaboratori e colleghi. Pur d’attaccarmi “La Repubblica” tirò fuori vecchia indagine finita nel nulla, in cui manco la veste d’indagato avevo assunto. Talché alla mia replica sfottente nulla aggiunse.
E ora mal gliene incoglie a De Luca, che sempre un po’ falloso nelle entrate, ignorando gli arbitraggi meno permissivi degli ultimi tempi, non può accettare che don Patriciello diventi simbolo nazionale della riscossa contro la camorra di Caivano. Un po’ come Saviano ci deve ricordare che il primato della censura radio-TV è la sua. E allora prima il De Luca interviene “da dietro” sull’ineffabile Don, suscitando l’ovvio fuoco di repressione del PdC, poi lo aiuta cavallerescamente a rialzarsi per non far scattare il “cartellino rosso”, e chiarisce l’ovvietà, ovvero che l’anticamorra non sia don Patriciello.
Non credo, o meglio, spero che il Don mai abbia pensato di essere l’anticamorra. In genere l’innata umiltà degli uomini di chiesa – ricordo don Peppe Diana e don Pino Puglisi – fa sì che evitino di volersi ritenere i depositari di un Graal piuttosto difficile da gestire. Operano sperando che sulla loro area si concentri l’attenzione di chi può, del potere, dei potenti, e giungano risorse per migliorare la situazione del gregge affidato loro dalla Chiesa. Non hanno la possibilità di vivere fra attici a Milano e New York, yacht, ricchezze derivanti da cachet milionari editoriali e radio-televisivi. E se un cachet arriva, servirà per il gregge: non sono professionisti della politica e delle parole, che poi è quasi lo stesso. Don Patriciello è rimasto a far il parroco, non frequenta ricconi milanesi come Padre Eligio, legatissimo a Gianni Rivera, né si è posto a capo di associazioni che a volte poco hanno a che fare con l’attività apostolica e assai con quella politica.
Il presidente De Luca, peraltro, non è un vate mediaticamente riconosciuto dell’anticamorra, né un simbolo di tale titanico scontro. Non corre il pericolo di essere spodestato da Don Patriciello. Ma così come ha sofferto l’affermazione di Saviano, ora che il tenebroso oscurato per antonomasia appare in seppur minima flessione di visibilità, non vuole se ne crei un altro, come accade coi pontefici.
Trovo estremamente ghiotto per le cronache che, nel suo recente intervento chiarificatore, con il quale riconosce i meriti di don Patriciello pur invitandolo a non ritenersi unico nel genere, non abbia inserito Saviano fra i vati dell’anti-camorra. Con questa tacita esclusione va a cozzare con una parte del suo partito, per il quale tale dogma è assoluto, ma anche cozzare con parte del suo partito fa parte del personaggio, gli serve a essere un PD diverso dal PD.
Al contrario, ha creato un’area diffusa degli eroi dell’anti-camorra, che si sovrappone e amplia quella dei professionisti dell’anti-mafia, stigmatizzata da Sciascia proprio avversando, in fin dei conti, Falcone e Borsellino.
In questo trovo interessante la posizione dello sceriffo salernitano, il Wyatt Earp di Salernostone, che accorre al suo personalissimo OK Corral per giungere all’annientamento di ogni specifico punto di riferimento iconico, per salvaguardare la propria posizione di unico altrettanto iconico punto di riferimento onnicomprensivo.