Ogni promessa è debito. Andiamo a parlare delle minacce conseguenti alla quinta promessa non mantenuta dalla democrazia, secondo Bobbio. Riprendiamo dalle teorie degli “arcana imperi” secondo le quali è lecito allo Stato ciò che non è lecito ai privati cittadini e pertanto lo stato è costretto, per non dare scandalo, ad agire in segreto, ma la democrazia, per esistere, richiede la trasparenza, il controllo pubblico.
Scrive Bobbio: “Inutile dire che il controllo pubblico del potere è tanto e più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quel che fanno i cittadini è enormemente aumentato, è praticamente illimitato. Se ho manifestato qualche dubbio che la computer-crazia possa giovare alla democrazia governata, non ho alcun dubbio sul servizio che può rendere alla democrazia governante.
L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti (possibilmente senza essere visto né ascoltato). Questo ideale oggi è raggiungibile. Nessun despota dell’antichità, nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur circondato da mille spie, è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che il più democratico dei governi può attingere dall’uso di cervelli elettronici.
La vecchia domanda che percorre tutta la strada del pensiero politico: “Chi custodisce i custodi?”, oggi si può ripetere con quest’altra formula: “Chi controlla i controllori?” Se non si riuscirà a trovare una risposta adeguata a questa domanda, la democrazia, come avvento del governo visibile, è perduta.
Più che di una promessa non mantenuta, si tratterebbe in questo caso addirittura di una tendenza contraria alle premesse.
La tendenza non già verso il massimo controllo del potere da parte dei cittadini, ma al contrario verso il massimo controllo dei sudditi da parte del potere.”
Nel 2006 Franca Rame, attrice teatrale, drammaturga e politica italiana, si candida al Senato della Repubblica Italiana e viene eletta tra le file di Italia dei Valori. Due anni dopo si dimette dichiarando che: “Le istituzioni mi sono sembrate impermeabili e refrattarie a ogni sguardo, proposta o sollecitazione esterna, cioè non proveniente da chi è espressione organica di un partito o di un gruppo di interesse organizzato.”
Opportuno evidenziare la frase: “espressione organica di un partito o di un gruppo di interesse organizzato”. Affermazione che non implica di certo che sia visibile e trasparente, sia il partito, sia il gruppo di interesse.
Quanti sanno come funziona un partito? Rispondere: “chi se ne importa” è una dichiarazione di sudditanza passiva, non di partecipazione democratica.
Non eliminare i poteri occulti, definendo come tali tutti quei poteri di cui non si conosce il funzionamento interno, su cui non si ha alcun controllo, di cui si ha percezione, ma non conoscenza, è la minaccia più grave alla democrazia, è la morte della democrazia.
Il 25 settembre 2022 abbiamo votato (a dire il vero non tutti, solo il 63,9 per cento degli aventi diritto) in occasione delle elezioni politiche. Abbiamo così eletto i nostri rappresentanti che siedono alla Camera e al Senato, i due rami del Parlamento italiano. Già, ma chi sono? Semplice domanda: “Chi è il vostro, il mio rappresentante?”
In altri paesi, USA, Regno Unito, Australia, si sa esattamente chi sia il proprio rappresentante. Si sa dove trovarlo. Ha un ufficio, un indirizzo dove andare. Si può chiedere un appuntamento e si viene ricevuti e ascoltati. Gli si può chiedere cosa stia facendo per voi, per la vostra comunità di appartenenza, per il Paese. Si ha il diritto di fare domande, presentare istanze e si ha il dovere di ascoltare, verificare.
Responsabilità primaria di chi viene eletto nei Paesi di cui sopra è la “accountabiliy”, l’essere “accountable”. Breve ma importante digressione.
Nonostante il termine inglese accountability abbia origine latina (latino tardo ad + computar), non esiste in italiano.
Il verbo to account significa essenzialmente ‘spiegare’, ‘rispondere di qualcosa’, cioè ‘rendere conto’. Il derivato astratto accountability significa la capacità di rendere conto, di spiegare, di rispondere di ciò che si fa. Significa dunque assumersi la responsabilità (questo nome astratto, di origine francese, è etimologicamente collegato proprio al verbo latino respondēre, ‘rispondere’) del proprio operato.
Tuttavia il senso di accountability non è identico a quello di responsabilità. Infatti la accountability è la qualità di chi è responsabile non solo in blocco e in modo indifferenziato (“se sbaglio, pago”), ma anche passo per passo, pronto a fornire spiegazioni per ogni aspetto che compone il proprio agire complessivo. Questo senso composito si applica bene a situazioni complesse, dove la responsabilità non riguardi un evento semplice, ma un processo articolato e organizzato, perché è soprattutto in questo caso che ha senso immaginare un impegno e un assetto organizzativo volti a rendere trasparente, tracciabile, controllabile e giudicabile ciascuno stadio del proprio operato.
Come tradurre dunque questo termine che significa la previa assunzione (spontanea, oppure anche imposta dall’esterno) dell’impegno a rispondere di tutti i passaggi del proprio operato, rendendoli conoscibili, spiegandoli, giustificandoli e sopportando le eventuali conseguenze di una loro messa in discussione o sanzionabilità? (Si ringrazia Edoardo Lombardi Vallauri dell’Accademia della Crusca).
Si lascia alla cura degli interessati trovare la parafrasi ottima per tradurre “accountability” in italiano, anche se non serve. Nessuno lo è, in Italia.
Torniamo alla domanda di cui sopra: “Chi è il vostro, il mio rappresentante?” Io non lo so. Non so a chi posso presentare le mie richieste. Non so chi è responsabile nei confronti dei propri elettori, chi si fa carico di soddisfare il mandato assegnato, assumendosi in prima persona le rivendicazioni, richieste, necessità di chi li ha scelti.
Da noi chi viene eletto interpreta il suo ruolo in modo irresponsabile. Non solo non rispetta gli elettori, ma spesso si dimentica di rispettare le istituzioni. Obiettivo primario è raccogliere consensi. Non politici, ma da stadio. Vedi il recente scambio di battute, epiteti e giudizi fra il Primo Ministro e il Governatore della Campania in occasione di un evento ufficiale, o il turpiloquio diventato prassi comune in occasione delle sedute di Camera e Senato.
Tutto ciò fa male alla democrazia.
Allontana il cittadino dallo Stato, dalle sue istituzioni. Non consente l’attuazione di tre principi fondamentali della Costituzione, contenuti nei suoi primi tre articoli:
- Principio democratico (art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”);
- Riconoscimento dei diritti dell’uomo, tra i quali i diritti politici (art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità), che impone corrispondenti doveri (sempre art. 2: “La Repubblica… richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica”);
- Fondamentale compito delle istituzioni è favorire l’esercizio effettivo dei diritti e l’adempimento dei doveri, compresi i diritti e i doveri politici, rimuovendo gli ostacoli al loro esercizio (art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che…impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica… del Paese”).
Tutto ciò fa male alla democrazia.
Riduce di molto la credibilità di chi chiede di essere eletto. Non per nulla la partecipazione al voto è in calo continuo.
Leggiamo, dalla Premessa alla Sintesi dei contenuti del Libro bianco “Per la partecipazione dei cittadini”; sottotitolo: “Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”, a cura del Dipartimento per le riforme istituzionali della Presidenza del Consiglio:
“Il buon funzionamento di una democrazia, la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche, l’effettiva rappresentatività delle istituzioni stesse dipendono, in primo luogo, dalla partecipazione dei cittadini alle elezioni (e ai referendum).
Un sistema è democratico, infatti, se le decisioni pubbliche (leggi, decreti, altri provvedimenti) sono deliberate direttamente dai cittadini (nei referendum) o da persone che essi hanno scelto, con il loro libero voto, per rappresentarli (nelle elezioni, politiche e amministrative).
“… persone che essi hanno scelto, con il loro libero voto, per rappresentarli”. Davvero? Scelti senza nemmeno sapere chi sono?
Nulla viene detto sulla possibilità, o meglio sul diritto/dovere dei cittadini di potere controllare, di chiedere che rispondano del loro operato.
Dunque, secondo quanto fino a qui esposto, il nostro sistema non è propriamente democratico. Quando il 36,1 per cento degli aventi diritto, ovvero più di uno su tre elettori, si astiene, non importa se sia astensionismo involontario, per disinteresse verso la politica, o di protesta, c’è molto di nascosto, ma percepito.
C’è altrettanto, se non di più, che non va.
Qualcosa di molto serio e preoccupante.