Lev Tolstoj (Jasnaja Poljana 1828 – Astapovo 1910), uno tra i massimi narratori di ogni tempo, scrisse La morte di Ivan Il’ic (1886) per descrivere la debolezza dell’uomo di fronte alla malattia e alla morte. Nel racconto, il triste destino del vanitoso giudice Ivan Il’ic – progressivamente abbandonato, da amici e parenti, ad un’angosciosa solitudine – induce il lettore a meditare sull’inesorabilità della morte.
Tolstoj, con ineguagliabile crudeltà, narra come, nell’animo dell’ambizioso giudice, col progredire della malattia, la vacuità e la menzogna, in cui ha vissuto, lasciano il posto alla disperazione. Le ultime ore di Ivan Il’ic sono segnate da una travagliata indagine interiore che avvicinano il lettore al tema originario dell’opera: la verità e la menzogna. La menzogna che corrompe la coerenza con se stessi e con gli altri, fino a inficiare – dipende dai ruoli – l’armonia sociale. Quella menzogna che, però, nulla può di fronte alla morte.
La menzogna – in prossimità del confine che separa il mondo delle falsità da quello delle verità – si rivela al protagonista, dapprima, leggera e impalpabile e, poi, pesante e asfissiante, fino a divenire la vera causa del suo terrore.
E si rivela nelle parole dei medici che si alternano al suo capezzale, fatte di domande e risposte, probabilità ed analisi, tutte inutili, come quelle che lui stesso formulava agli imputati, indossando la maschera di giudice irreprensibile e corretto.
Ivan Il’ic, grazie al filtro dell’agonia, vede, finalmente, tutta la finzione che lo circonda: quella dei medici, sulla reale gravità delle sue condizioni; quella dei colleghi che ambiscono al posto che, di lì a poco, si sarà liberato e, persino, quella della moglie che già s’informa sul trattamento economico che lo Stato le riserverà da vedova.
Tolstoj scava nell’enigma della vita e della morte e, grazie alle sue penetranti osservazioni psicologiche, delinea i tratti della menzogna umana, senz’alcuna distinzione tra le piccole menzogne borghesi e le grandi menzogne sociali, politiche e militari.
Neppure lo scrittore, filosofo e giornalista Alain de Benoist – teorizzando sulla dittatura del “politicamente corretto”, nel suo saggio La Nuova Censura (Diana Edizioni, 2021) – formula alcuna distinzione tra le piccole e le grandi menzogne: “poco importa che un’idea sia giusta o falsa: l’importante è sapere quale strategia essa serve, chi vi fa riferimento e con quale intenzione”. E fa appello alle menti libere e ai cuori ribelli per difendere le prerogative del pensiero critico contro il “politicamente corretto”, che considera “erede dell’Inquisizione” nonché vettore degli stessi effetti della “neolingua” descritta da George Orwell nel suo 1984.
“Non soltanto i mezzi di informazione hanno quasi abbandonato ogni velleità di resistenza all’ideologia dominante, ma ne sono divenuti i principali vettori”, afferma Alain de Benoist: “Giornali, televisioni, partiti politici: da trent’anni tutti dicono più o meno la stessa cosa perché tutti ragionano all’interno dello stesso cerchio di pensiero. Il ‘pensiero unico’ è tanto più onnipresente nei mezzi di informazione in quanto si esercita in un microambiente dove tutti hanno gli stessi riferimenti (i valori economici e i diritti dell’uomo), dove tutti si danno del tu e si chiamano per nome, dove le stesse relazioni incestuose uniscono giornalisti, uomini politici e show business”.
Nel film The penitent (nelle sale dal 30 maggio scorso), Luca Barbareschi, ispirandosi a un caso di cronaca avvenuto negli anni settanta negli Stati Uniti, affronta i temi del giornalismo, della giustizia e della verità, arrivando a quella che ha definito “pornografia dell’informazione”: il pericoloso approccio che costruisce giustificazioni e colpe a seconda dell’uso che se ne fa: il cosiddetto “doppiopesismo all’occidentale”, tanto abusato ai nostri giorni. Tutto ciò, naturalmente, a discapito della morale, di ogni deontologia professionale e, naturalmente, della tanto, ipocritamente declamata democrazia.
“All’intellettuale impegnato è subentrato l’intellettuale a gettone: alle tre C che ieri definivano la sua missione – Criticare, Contestare, Combattere – sono succedute le tre A che oggi riassumono le sue dimissioni: Accettare, Approvare, Applaudire”, scrive ancora Alain de Benoist,
Risulta, pertanto, palese il rischio di passare dal capezzale di Ivan Il’ic a quello della verità, perché tra “pensiero unico” e menzogna, come dice qualcuno, “è un attimo!”