Lo scrittore, umorista e giornalista ceco Jaroslav Hašek (1883-1923) pubblica, dal 1921 al 1923, i primi quattro dei sei volumi che formano il romanzo satirico e caricaturale dal titolo Il buon soldato Sc’vèik (Feltrinelli 2013), in cui racconta le avventure di un soldato boemo, entusiasta di servire l’Impero austro-ungarico durante la prima guerra mondiale.
Il romanzo – rimasto, inizialmente, incompiuto per la morte improvvisa dell’autore e, successivamente, completato da un suo amico – è l’opera ceca più tradotta al mondo ed è collocata nell’ambito della letteratura antimilitarista sviluppatasi tra le due guerre mondiali, in cui, tra tanti altri, ritroviamo i romanzi Le croci di legno del francese Roland Dorgelès, Niente di nuovo sul fronte occidentale del tedesco Erich Maria Remarque e il racconto La baracca del croato Miroslav Krleža, ritenuto da Jean-Paul Sartre il più bel racconto di guerra del Novecento.
Nel romanzo Il buon soldato Sc’vèik, grazie alle vicende del protagonista, uomo ingenuo e gioviale, Jaroslav Hašek descrive l’assurdità, la stupidità e le miserie della guerra. E lo fa così bene da dar vita a neologismi ispirati al nome dello stesso protagonista: švejkovina (azione alla sc’vèik), švejkovat (fare lo sc’vèik), švejkárna (un’assurdità militare). Espressioni che hanno dato al soldato Sc’vèik l’enorme popolarità di cui gode tuttora.
Sc’vèik, dopo aver lasciato il servizio nell’esercito – in quanto riformato dalla Commissione medica militare per “reumatismi e idiozia acclarata” – si dedica al commercio di cani di dubbia razza e incerta provenienza, che rifila a clienti sprovveduti.
Finisce in manicomio per aver espresso in pubblico le sue opinioni, all’indomani dell’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914). E da qui viene allontanato in quanto ritenuto un “simulatore debole di mente” e, come tale, è immediatamente richiamato alle armi.
Sc’vèik, indottrinato dalle menzogne di regime, crede nella guerra, nella patria, nella monarchia austro-ungarica e vuole, a ogni costo, sacrificarsi per sua Maestà l’Imperatore.
Viene nominato attendente, prima, di un cappellano militare alcolizzato, poi, di un tenente: entrambi finiscono col subire la sua imbecillità, finché non viene destinato al fronte. Durante una faticosa e disordinata marcia verso la prima linea, sullo sfondo dei villaggi distrutti dalle bombe, viene scambiato, ora, per un disertore, e aiutato dalla popolazione a sfuggire la guerra, ora per una spia russa da impiccare.
Lo salverà la sua semplice astuzia contadinesca, che ne ha fatto il prototipo dei milioni di soldati travolti dalla prima guerra mondiale, divenuti simbolo dell’insensatezza della guerra o, meglio, del vero senso di tutte le guerre: una enorme carneficina di tanti giovani, a vantaggio di pochi. Tutt’altro che grandi cause!
In tanti, come il soldato Sc’vèik, non conoscevano, né conoscono, la vera causa della prima guerra mondiale, nonostante quel gigantesco massacro sia “alla base di tutto il secolo appena trascorso e di tutti i suoi mali”, come scrive Milan Kundera nel suo saggio sul romanzo Il sipario (Adelphi 2005).
“Il soldato Sc’vèik di Hašek”, aggiunge Kundera, “aderisce così poco agli scopi della guerra che non li contesta neppure; non li conosce; non cerca di conoscerli. La guerra è spaventosa ma lui non la prende sul serio. Non si prende sul serio ciò che non ha senso. Ci sono momenti in cui la Storia, con le sue grandi cause e i suoi eroi, può apparire insignificante e comica”.
Questa prospettiva appartiene a Sc’vèik e a tutti i cechi che si sentivano estranei alle cause della guerra del ‘14. Appartiene ai disertori che si rifiutano di partecipare alla commedia della Storia. Appartiene a coloro che si rivelano indifferenti nei confronti dei grandi conflitti. E, irragionevolmente, appartiene ai tanti indifferenti alla pace: i disertori della pace.