In queste concitate giornate di inizio settembre si è rapidamente passati dalle impressioni epidermiche a presunte ponderate valutazioni di espressioni cutanee.
Ancora fresco il ricordo delle sceneggiate napoletane, che hanno valorizzato l’opera meritoria di Mario Merola e che ne hanno sottolineato l’attualità e l’aderenza persino ai contesti istituzionali, l’attenzione collettiva si è concentrata sulla designazione in un rilevante posto di responsabilità di un qualificatissimo individuo, staffettista di un pensiero che solo grazie al coraggioso passaggio di testimone tra pochi arditi giunge ai giorni nostri nel suo pieno fulgore.
In una Nazione debordante di laureati telematicamente in Atenei caratterizzati da generosità proporzionale alle corresponsioni degli iscritti, il personaggio può serenamente ammettere di non aver concluso i propri studi universitari e gli va dato merito di non aver cercato un “pezzo di carta” che ripetutamente si è palesato efficace come la jellatrice scritta “nuoce gravemente alla salute” sui pacchetti delle sigarette ciò nonostante vendute imperturbabilmente dai Monopoli di Stato.
Chi è al timone del Paese ha dovuto procedere al cambio in corsa di un titolare di dicastero che ha voluto a tutti i costi dimettersi a dispetto degli strepitosi risultati conseguiti soprattutto nell’opinione pubblica. Al pari di Verdone che sfoglia l’agendina per trovare un compagno di viaggio nell’Est Europa, è difficile operare una scelta inattaccabile quando – dopo “Olimpico Stadio” e “Stadio Olimpico” – ci sono pochi nomi su cui agire. Ma la sorte premia l’audacia e “the right man in the right place” viene immediatamente trovato.
E’ il soggetto ideale per la capacità di aggregazione (comprovata da sodalizi che hanno fatto borbottare le malelingue per mera invidia), per le manifestate sincere simpatie che potrebbero sanare fratture politico-diplomatiche ai confini del Continente, per chissà quanti altri meriti che solo chi lo conosce bene è in grado di attribuirgli.
Ma l’Italia vive di indignazione e quindi ci si possono aspettare solo commenti caustici che non fanno onore né a chi li vomita sui social né ad un Paese in cui – come diceva Cetto Laqualunque – adesso va tutto bene.
Non sapendo più a cosa appellarsi, il popolo dei “rosiconi” ha rispolverato vecchie immagini scatenando le più invereconde accuse. Accecati dall’odio per chi contrappone democratiche alternative alle inestirpabili opinioni di sinistra, in tanti hanno notato segni scuri sul vigoroso petto del prescelto.
Immediatamente è saltata fuori la storia che il tizio avrebbe un vistoso tatuaggio raffigurante un’aquila fascista impressa nella parte alta del torace.
Fretta ed ignoranza hanno portato a prendere una terribile e imperdonabile cantonata. Quel segno non è una rappresentazione pittorica deliberatamente inchiostrata sulla pelle, ma probabilmente (Gorbaciov docet e nessuno mai si è dannato ad interpretare la sua) una macchia tipica di certi angiomi cutanei.
Nessun tatuaggio, quindi, ma solo una voglia.