L’ultimo film di Gabriele Salvatores fa riflettere non poco. Pur essendo classificato del genere drammatico non ha elementi di violenza gratuita benché non sia certo una favoletta.
La storia è quella delle peripezie di due fanciulli napoletani: una ragazzina ed un ragazzino di poco più grande. Rimasti soli a Napoli per la morte di genitori e parenti, decidono di andare in America. Siamo nell’immediato dopoguerra e le truppe americane sono rientrate; la piccola arte di arrangiarsi non è più sufficiente per sbarcare il lunario, ovvero per mettere qualcosa sotto i denti. Le prime bande di nascenti criminali iniziano a prevaricare e ad imporsi anche per i nostri piccoli fanciulli.
Con uno stratagemma riescono ad imbarcarsi clandestinamente su una nave diretta negli Stati Uniti. Dopo pochi giorni vengono scoperti e portati avanti al Capitano della nave che tenta di impaurirli dicendo che la clandestinità è illegale. La piccola fanciulla risponde “Anche morire di fame è illegale” lasciando tutti di stucco e toccando i loro cuori.
Qualcosa si aggiusta sino al rocambolesco sbarco a New York di Celestina e Carmine, questi i nomi dei due giovanissimi, già capaci di affrontare con scaltrezza, in parte improvvisata ed in parte maturata, le avversità della vita. Celestina vuole trovare la sorella partita per l’America tempo prima. Quando, all’arrivo della nave, vede la statua della Libertà la scambia per la Madonna di Pompei. Carmine e Celestina, tra tante piccole avventure, si trovano nella metropoli e finiscono a “Little Italy” dove tutti si conoscono e si aiutano per quanto possono. Un quartiere tutto di immigrati, quasi tutti dal sud. Drammi e gioie si accavallano in un’America al contempo solidale e cinica. Parlare del finale sarebbe inopportuno.
Il film sicuramente tocca il cuore ed è commovente. Certamente fa riflettere e ricorda a chi preferisce non pensare, o non sa, quale sia stato il dramma dell’emigrazione, prevalentemente dal Meridione, verso gli Stati Uniti: l’America come genericamente di diceva e si dice.
Non siamo solo un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori come inciso sul Palazzo della Civiltà italiana di Roma, comunemente conosciuto dagli abitanti capitolini come il “Colosseo quadrato”. Siamo stati anche un popolo di migranti per bisogno e fame; quella vera che ha indotto non pochi a commettere reati ed a vendersi per sfamarsi e sfamare la famiglia. Basta consultare i dati sulle migrazioni dagli ultimi decenni dal XIX secolo in poi, rivedere qualche film del nostro neorealismo o leggere alcuni libri di grande crudezza. Oggi, per lo più, emigrano persone di cultura medio alta. Un tempo migravano braccia da lavoro, ora cervelli. È mutata la tipologia ma sempre di mancanza di lavoro, o mal retribuito, si parla.
Quando si raccolgono migranti in mare pensiamo non al colore della loro pelle ma alle sofferenze dei nostri avi che viaggiavano su navi dove venivano trattati poco più che merce alla rinfusa. Il “Mare nostrum” sta divenendo, con orrore, il “Cimitero nostrum”. Non perdetevi il film e meditate.