In questi giorni, tra gli auguri di Buone feste, ne ho ricevuto uno di un amico sinologo che mi ha colpito particolarmente; diceva in più lingue, compreso il cinese: “La cultura è il crocevia dei pensieri e delle idee, l’officina in cui si forgia il futuro”.
Stranamente mentre riflettevo su questa frase positiva e piena di speranza mi è tornata alla mente quella del Sottosegretario di Stato al Ministero della giustizia, On. Andrea Delmastro Delle Vedove. Non quelle più celebri, le famose “togliere l’aria” e “prendere per la pelle del culo”, ma un’altra, passata quasi sotto silenzio, espressa in una fugace intervista televisiva strappatagli tra gli stand di Atreju a commento delle dichiarazioni precedenti. Una rivendicazione lapidaria di forme e contenuti, espressa con cipiglio e partecipazione emotiva: “L’Italia ha cambiato marcia e ha cambiato grammatica”.
Sorvolando sulla coniugazione troppo favorevole del tempo dei verbi, mi ha particolarmente colpito l’uso del termine “grammatica” al posto di tanti altri più correnti come: “linguaggio” (correttissimo), “modo di parlare” (esplicito), “lessico” (dotto) o “registro” (modo di comportarsi e di parlare) al tempo stesso voce dotta e d’uso anche familiare.
Vilfredo Pareto, insigne economista e sociologo oltre che amico e professore a Losanna di Benito Mussolini, sosteneva che “Il significato di certi termini non si deve ricavare dal significato etimologico, o dal senso loro volgare, ma esclusivamente dalle definizioni date nel testo [dall’autore]”. Quindi, deduciamo noi, il significato è nella testa di chi lo adopera e questo è ciò che deve interessare un ricercatore sia esso sociologo o psicologo.
Di fatto il termine “grammatica” dà alla proposizione un maggior senso di nobiltà espressiva essendo un’accezione capace di evocare e mescolare significati diversi che vanno da quelli più antichi, elementari e popolari, a quelli più elitari (“modo di parlare” o “arte che insegna a scrivere e a parlare correttamente”) e persino tecnologici (“sistema”). Quindi una scelta stilistica di un politico spesso travolto dalle sue esternazioni.
A ben guardare anche lo stile è parte integrante della cultura, anzi ne determina la “cifra”, ma potremmo anche dire la “grammatica”, esteriore e interiore. Abbigliamento, taglio dei capelli e della barba, gestualità, oratoria sono il packaging della persona. Un involucro che, secondo le leggi del marketing, ha la duplice funzione di nascondere alla vista il prodotto, anche per salvaguardarlo, e di renderlo nel contempo più appetibile suggerendone, se non aumentandone, le qualità.
Ovviamente “l’abito non fa il monaco” e le parole prendono, come i comportamenti, il sopravvento nel rappresentare la “grammatica” interiore e, quindi, la propria cultura. Per questo qualcuno, nell’incendio della logomachia, ha parlato di “cattivismo” divenuto “cifra dominante di FdI e della Destra” chiedendosi “E se la cultura fosse solo un modo di pensare?”
Una domanda che non riguarda certo solo il vocabolario di Fratelli d’Italia, ma di tutti noi. In effetti la cultura è realmente e prima di tutto un “modo di pensare”, un bagaglio e una guida sedimentata sulle proprie esperienze che determina il nostro essere sia come singoli individui che come membri di un gruppo. Pertanto la cultura, così intesa, costituisce sia un patrimonio personale che uno strumento e un confine preciso per capire e farsi capire dai propri simili all’interno di un gruppo. Un confine valicabile o invalicabile verso altri individui di altri gruppi a misura delle proprie capacità culturali sia del singolo soggetto che del gruppo di appartenenza, oltreché, ovviamente, della volontà di farlo. Non c’è comunicazione sociale se non c’è comunione, direbbe la Chiesa. Purtroppo la cultura non è come il “coraggio” di Don Abbondio che “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”, essa, al contrario, esiste sempre in noi e ci caratterizza con un preciso stigma valoriale.
Il fatto che la cultura sia contemporaneamente un prodotto e uno strumento originato dalla sedimentazione di un vissuto socio-culturale rende il suo uso strategico molto raffinato non tanto verso il gruppo d’appartenenza, che condivide già il nostro modo di pensare e di essere, ma verso individui o gruppi esterni da convincere o attrarre, dando nel contempo una positiva immagine di sé. La scelta di fondo iniziale è sempre figlia della nostra cultura: “tolleranza e dialogo” o “intolleranza e imposizione”.
La politica strillata con le vene del collo gonfie e quella statuaria e impassibile degli anziani Senatori romani di fronte ai Galli Senoni che, urlando, li stavano trucidando o quella più vicina a noi degli imperturbabili Aldo Moro e Giulio Andreotti sono da sempre l’Alfa e l’Omega della scala comportamentale di ogni politico. Quando si rappresenta un improvviso 30% del totale dei votanti che tutti assieme sono appena il 50% degli aventi diritto al voto, pensare che la “Maggioranza del Popolo” – che di fatto sarebbero gli altri che non ci hanno votato – voglia o già aderisca alla nostra “Cultura” e che, addirittura, la nostra “Rivoluzione Culturale” sia già divenuta “Egemonia” potrebbe essere un errore non solo culturale, ma politico, soprattutto per un uomo di Governo che è lì per amministrare lo Stato. Purtroppo oggi la politica sembra fatta più per vellicare e ricompensare i vecchi sodali che per ricercare un consenso più largo.
Comprendiamo che ridurre la cultura a “un modo di pensare”, di essere e comportarsi, se siamo abituati a immaginarla con la C maiuscola fino a considerarla “Civiltà di una Nazione” può porci dei problemi di significato, di utilizzo e di comprensione. In verità le definizioni del termine sono tante e tutte dipendenti dalle scienze o dalle finalità, ma molto più spesso dal semplice punto di vista, con cui si tenta di determinarle. Quella che ne dà la Treccani è abbastanza riassuntiva di tutti gli elementi che concorrono a comporla nelle diverse definizioni: “L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo.” Un qualcosa, quindi, che implicherebbe – in una visione illuministica – l’evoluzione positiva delle capacità sociali, estetiche, etiche, morali e spirituali della persona.
A questo riguardo e proprio nel periodo dei regali, un fenomeno socio-culturale ha fornito un sorprendente esempio delle svariate correnti, anche carsiche, della cultura italiana: “Il Dio dei nostri padri. Il grande romanzo della Bibbia”, libro di Aldo Cazzullo pubblicato lo scorso 24 settembre, è divenuto il più venduto non solo della settimana di Natale, ma dell’intero 2024, superando, secondo “Dagospia”, il meno spirituale e più politico “Perchè l’Italia amò Mussolini” pubblicato da Bruno Vespa nel 2021. Questo è avvenuto in un Paese dove il 35% degli intervistati non comprende un testo semplice e non sa fare calcoli con più variabili e il 46% ha grosse difficoltà nel problem solving stando all’ultima ricerca OCSE sull’ “analfabetismo funzionale” pubblicata il 14 dicembre scorso. Soltanto il 5% degli italiani (contro il 12% della media internazionale) ha raggiunto il livello più elevato, riuscendo a comprendere e valutare testi densi di più pagine, coglierne significati complessi o nascosti e portare a termine le prove assegnate. Dati che ci pongono per le competenze di base della popolazione adulta (dai 16 ai 65 anni) al quart’ultimo posto sui 31 paesi avanzati valutati. Una posizione che è più o meno identica alla precedente riscontrata sempre dall’OCSE nel 2012 a prescindere dalle culture politiche dei vari Governi succedutisi sino a oggi: Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2, Draghi e Meloni.