Previdente il nuovo ministro della Cultura Alessandro Giuli, il quale, a pochi giorni dall’insediamento in via del Collegio Romano, sede del dicastero, chiarì subito che il rapace fattosi tatuare sul petto in tempi lontani non è l’Aquila fascista e, comunque, ha un altro tatuaggio sul braccio sinistro.
Il tradizionale comitato di accoglienza degli intellettuali addetti all’esame della purezza del DNA culturale aveva infatti preconizzato anche per lui un cursus interruptus come quello del predecessore Gennaro Sangiuliano.
Ambedue intellettuali, ma non ascrivibili alle confessioni dominanti, avevano infatti accettato di entrare in un governo in cui la Destra che lo guida non è neanche come quella dei liberali di Malagodi, alleati, nella prima repubblica, ai democristiani di Andreotti, ma, volendo salire per li rami, se ne potevano scorgere ascendenze nel Movimento Sociale Italiano.
Il partito in cui, agli albori della repubblica nata dalla Resistenza, Giorgio Almirante adunò i pochi che non avevano abiurato il regime traghettandoli nel parlamento eletto e regolato dalla Costituzione del 27 dicembre 1947 che aveva disposto il divieto di “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Norma, questa, a sigillo della scelta dei costituenti, la quale, prima che politica e ordinamentale, era di cultura, cioè di consapevole condivisione dei cittadini singoli e delle formazioni sociali dei concetti ed impegni di libertà, uguaglianza e democrazia.
A Gennaro Sangiuliano, comunque, fu risparmiato il rogo in piazza, seppure in effige, come invece era successo al collega di governo Giuseppe Valditara, capo del Ministero dell’Istruzione che, fino al 1974, gestiva i compiti di quello che poi è diventato della Cultura. Quasi che essa, la cultura appunto, meritasse particolare e rigorosa attenzione dopo che il voto popolare del 2023 ne aveva imposto un cambio di gestione.
Quindi, fortino nel quale agire di offensiva preventiva e, ciò che più conta, in nome della Costituzione.
Nonostante, in verità, nella Carta, la parola “cultura”, con riferimento generale al compito della Repubblica di promuoverla, compaia una volta sola. Per il resto, infatti, la citazione all’ultimo comma dell’art. 33 è ad esplicitazione della funzione di “alta cultura” delle università e, all’art. 117 la “valorizzazione dei beni culturali” ha un connotato di specificità operativa, attenendo alla competenza “concorrente” tra le istituzioni cui è demandato fare le leggi, cioè Stato e Regioni.
Una volta, Riccardo Bacchelli a Enzo Biagi che gli chiedeva cosa rispondesse ai critici che avevano calcolato avesse scritto “milioni di parole”, rispose semplicemente “Che non sono troppe”.
Il Costituente, invece, almeno per il termine “cultura”, è stato piuttosto avaro e, se pure l’ha collocato nei Principi generali (art.9), il suo inserimento è stato un po’ casuale. Non frutto, cioè, di specifico, approfondito e partecipato dibattito, ma quasi atto riparativo compiuto in extremis, al momento del coordinamento finale del testo.
La norma originaria, l’art. 29 proposto dalla Commissione dei Settantacinque, si riferiva, infatti, solo alla tutela dei “monumenti artistici, storici e del paesaggio”. Ad essa, in una peraltro breve discussione assembleare, furono aggiunte, su iniziativa dei democristiani (Firrao, Colonnetti) e dei comunisti (Nobile), la “ricerca scientifica e la sperimentazione tecnica”. Poi, in sede di coordinamento dei testi, avvenne qualcosa di più di un mero riordino lessicale. Infatti, la parola “cultura” che prima non figurava, fu addirittura anteposta al resto dell’articolo che nella stesura definitiva (art. 9) recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”
Non va, peraltro, sottaciuto e nemmeno sottovalutato che il Giudice delle leggi, la Corte, non ha fornito compiute interpretazioni del concetto costituzionale di cultura che, stando al dettato complessivo della norma, viene descritto con i modi più significativi in cui l’intelligenza dell’uomo, del cittadino, si esprime e lascia traccia: l’arte, la scienza e la tecnica, il patrimonio storico. In sostanza, l’attività di ricerca intellettuale.
L’anno dopo l’entrata in vigore della Carta che aveva controfirmato, il capo del governo di allora, Alcide De Gasperi, trattando di cultura con riferimento alla “Costituzione che abbiamo giurata”, parlò di “esclusione dell’intolleranza, di rispetto delle fedi e di metodo di superare i contrasti, quando dal campo delle idee si ripercuotono nel settore della pratica civile”.
Chi, allora, comprese subito l’importanza della cultura anche sul piano della ordinaria gestione politica, cioè della conquista e dell’esercizio del potere, furono i Comunisti di Togliatti i quali, con i socialisti di Nenni, lanciarono l’”Appello alla alleanza per la cultura” che fu sottoscritto da quattromila intellettuali.
Il numero non può non far pensare a repentini cambi di inchiostro da parte di penne per un ventennio paghe di scrivere verso destra. Sol che si ricordi che, quando fu imposto ai docenti universitari l’obbligo di prestare giuramento al regime fascista, soltanto in sette si rifiutarono ed i professori, allora, nel 1931, erano oltre milleduecento.
Così forse nacque l’egemonia culturale della sinistra, come la chiamano in Italia (ed anche altrove), l’”intellighenzia inseppellibile”, diceva Indro Montanelli che le attribuiva l’”autoinvestitura della esclusiva del Verbo, su cui si fonda un reticolo clientelare di posti di potere culturali a prova di tutto “.
Altro, l’atteggiamento dei democristiani: ”ritirata assoluta, disinteresse programmatico verso la cultura, duttilità massima, subappalto implicito alla sinistra”, l’ha definito recentemente Marcello Veneziani (suggerendo ai governanti di oggi di fare altrettanto. Anche per evitare, nelle nomine, di “mettere il vostro pupazzetto che poi diventa bambolina del malocchio per la fattura di morte alla Regnante”).
In linea, pare, con l’ineluttabilità considerata da Montanelli. Un po’ meno, però, quanto alla pratica della Democrazia Cristiana, certo condiscendente, ma non inattiva. Gelosa, infatti, della guida del Ministero della Pubblica Istruzione – antenato di quello della Cultura – che, se si escludono i sette mesi in cui fu assegnato al liberale Gaetano Martino, detenne ininterrottamente per trentatrè anni.
Attenta, peraltro, a non lasciarsi sfuggire le novità. Il rilancio e lo sviluppo della settima arte, il cinema, ad esempio, portano la firma ed i segni dell’opera di Giulio Andreotti, sottosegretario incaricato anche di presenziare al Festival di Venezia (ma con moglie al seguito per…evitare le tentazioni, gli impose De Gasperi).
Ora, il primo governo guidato dalla Destra, quando prima di Natale vara il “Decreto Cultura per rispondere alle esigenze della catena del valore della cultura e affermare una visione internazionale”, chiama i piani attutativi che lo compongono con i nomi di due grandi italiani che di destra certamente non furono. Enrico Mattei, il fondatore dell’ENI che era stato il Comandante Marconi delle Brigate partigiane cattoliche e Adriano Olivetti, l’industriale delle macchine da scrivere e dell’utopia sociale noto agli inglesi, durante la Resistenza, come Brown.
Curioso monito, forse, per i possibili emuli di quegli intellettuali fascisti che dopo il 25 aprile si professarono anti, nella memoria dello sberleffo di Ettore Petrolini ai tempi del regime: ”Ho fatto un brutto scherzo alle Ferrovie. Ho comprato un biglietto andata e ritorno e…non sono tornato”.