“Neanche il becco di un quattrino pubblico per il salvataggio delle banche”, diceva il liberale Luigi Einaudi e – fosse ancora lui il ministro del Tesoro – del Monte dei Paschi di Siena non si sarebbe sentito più parlare da un pezzo. Invece, il governo Gentiloni (centrosinistra), nella notte tra il 22 e il 23 settembre 2017, decise di diventarne azionista. Di salvarlo, a seguito delle perdite generate da operazioni spericolate e dopo che dal mercato non era arrivata la risposta necessaria a consentirgli, con un capitale adeguato, di proseguire l’attività di banca. La più antica e – seppure già istituto di credito di diritto pubblico ben presente sul territorio nazionale e attivo all’estero – anzitutto banca della città. Di Siena, la quale, sia prima che dopo la trasformazione in spa, l’aveva amministrata con cinque consiglieri su otto nominati ante privatizzazione da Comune e Provincia e, poi, dalla locale omonima Fondazione.
Un tempo, la chiamavano la banca della sinistra, ma i presidenti venivano indicati dalle correnti della DC e il Provveditore (direttore generale) dal Ministro del Tesoro d’intesa con la deputazione amministratrice. Forse più correttamente, quindi, si sarebbe dovuto parlare – e se ne è parlato – di “consociativismo partitocratico”. (Non a caso, il ministro del governo Gentiloni che ne propose il salvataggio, Pier Carlo Padoan, venne poi eletto senatore della città).
Un “groviglio armonioso” di interessi pubblici e privati che qualcuno pare voler vedere anche in questa improvvisa iniziativa del Monte risanato, pronto a scambiare le sue azioni con quelle del tempio del potere economico finanziario lombardo, Mediobanca. Lì, dove Enrico Cuccia, che l’aveva fondata con la Comit di Mattioli e poi guidata, sosteneva che “le azioni non si contano ma si pesano” e per anni ne fece il salotto buono dei pochi, grandi finanzieri italiani i quali col 6% del capitale contavano quanto il 57% delle banche pubbliche azioniste di maggioranza (Commerciale, Banca di Roma, Credito Italiano) e, cioè, dell’IRI. In definitiva, dello Stato italiano.
Tutti dicono che sarà il mercato a decidere sulla offerta pubblica di scambio proposta da MPS, ma c’è chi si domanda se davvero possano essere solo pochi players nazionali o internazionali a decidere.
Certamente, maggiore concorrenza, con la creazione di un terzo polo bancario forte, determina migliore qualità e, per la Presidente del consiglio, ne deriveranno vantaggi ai depositanti. Ma anche alle famiglie e imprese core business del Monte ed alla finanza pubblica e privata del paese con il rinvigorimento della banca d’affari milanese. Presupposto, per giocare a pieno titolo la partita a livello europeo nella quale sono già in campo gli altri due grandi gruppi italiani, Intesa e Unicredit. Protagonista quest’ultimo di tentativi di acquisizioni sul mercato tedesco (Commerzbank) e interno (BPM, che aveva già in corso l’offerta pubblica di acquisto di Anima Holding spa, diretta a costituire il secondo aggregato finanziario nazionale di matrice bancaria).
Non va sottovalutato, inoltre, che l’operazione MPS/Mediobanca si colloca temporalmente subito dopo l’iniziativa di Generali – di cui Mediobanca detiene il 13% del capitale dal quale trae gran parte dei suoi utili – per una joint venture con la francese Natixis, mediante una nuova società di risparmio gestito che si collocherebbe ai vertici in Europa. E pure una buona mano allo sviluppo della società d’Oltralpe, e, quindi, alla Francia la quale consoliderebbe la sua penetrazione nella penisola anche attraverso Generali che, per massa finanziaria, è considerata un po’ la cassaforte d’Italia.
Può essere anche questa una chiave di lettura, in senso difensivo, del benestare all’iniziativa senese da parte del governo, il quale possiede tuttora l’11,7 % del capitale del Monte e che pareva pacifico dovesse dismettere?
O c’è dell’altro che rende sopportabile la minusvalenza appena registrata in borsa dalla partecipazione in conseguenza dell’ops? Forse. Almeno, stando a quanto traspare dalla dichiarazione di un esponente qualificato del maggior partito di governo, l’onorevole Marco Osnato, per il quale: “Se rimanere dentro MPS significa aumentare il valore della quota pubblica, allora restiamo”. Questione solo di vil pecunia o si apre un nuovo capitolo “dell’antica tenzone, a usare un termine cavalleresco”, come scriveva Giancarlo Galli a proposito dell’antica contrapposizione fra Roma a Milano? Dove Roma sta per politica cui, secondo alcuni, la finanza dovrebbe sottostare e Milano per Mediobanca, l’istituto che già nei primi anni ’50 il presidente del consiglio e ministro democristiano Mario Scelba voleva “soffocare nella culla” ed a cui i governanti degli anni successivi cercarono costantemente un contraltare? “Senza una grande banca, non si va da nessuna parte”, predicava, infatti, Beniamino Andreatta e la sinistra di Fassino per qualche momento si illuse di…averla.
Mediobanca – che naturalmente considera “ostile” l’affondo di MPS, tra l’altro meno capitalizzato di essa – era e rimane crocevia obbligato sul quale, però, le regole di passaggio non possono essere riservate al solo mercato. Tanto più che la libertà di impresa, come la tutela del risparmio, l’esercizio del credito, il diretto ed indiretto investimento azionario trovano particolare protezione nella Costituzione e di essa lo Stato, con i suoi poteri regolatori, deve farsi attore e garante. In generale e figurarsi in partite così coinvolgenti gli interessi nazionali.
Sebbene le prime reazioni del mercato all’iniziativa di Palazzo Salimbeni, sede di MPS, non siano state positive, potrebbe essere, dunque, proprio lo Stato – e non solo perché titolare dell’11,7% del capitale della banca proponente – a trovare i terreni e le forme con cui agevolare il sì allo scambio di azionisti importanti e rilevanti sul piano internazionale, in aggiunta a Caltagirone e Delfin. Anche perché l’iniziativa non finisca per gratificare, al momento, solo questi ultimi.
Non a caso, Lando Sileoni, segretario del maggiore sindacato dei lavoratori bancari parla di “un’operazione a metà fra il mercato e la politica”. Ma sotto l’occhio –aperto e senza strabismi – di Banca d’Italia, Consob e BCE.